Imprese dimensioni

Resistono meglio a shock estremi come pandemie e guerre, hanno una maggiore produttività, si possono dotare delle strutture necessarie per affrontare mercati internazionali sempre più difficili, corrono molto meno il rischio di un eccessivo familismo, investono una quota di fatturato maggiore in ricerca e sviluppo, fanno più formazione al personale, hanno un migliore accesso al credito, evadono meno il fisco. Sono tutte qualità delle imprese di grandi dimensioni, o quantomeno medie, secondo il progetto Competere di Federmeccanica – cui abbiamo aggiunto la predisposizione all’export. Di fronte a un mondo stravolto dalla pandemia e dalla guerra, è giunto il momento di dirlo a chiare lettere: le piccole imprese mancano di molte caratteristiche necessarie per affrontare con successo i mercati, a maggior ragione quelli esteri.

Le dimensioni delle imprese

«La crescita dimensionale delle imprese italiane è diventata ancora più impellente» dice a Economy il presidente di Federmeccanica Federico Visentin, «perché siamo di fronte a cambiamenti inattesi quanto epocali: dobbiamo riuscire a esserne protagonisti e non trascinati. Non per niente nel documento di politica industriale che Federmeccanica ha condiviso con i sindacati di categoria del settore automotive, una novità assoluta, anziché perorare la causa degli incentivi propria dei grandi costruttori, tra i punti strutturali tesi a rafforzare non solo la domanda ma anche l’offerta – specie delle imprese di componentistica – si parla anche di crescita dimensionale». Il caso dell’automotive, un settore che si trova in grossa difficoltà a causa dei repentini cambiamenti imposti dalla transizione ecologica, è emblematico. «Quel che viene richiesto all’auto presto sarà esteso a molti altri settori» rimarca Visentin, «l’Europa spinge per andare verso l’elettrico, le imprese si chiedono che strada prendere. Ma l’approccio della Germania è molto diverso dal nostro, proprio perché è guidato dalle grandi imprese insieme al governo, che in buona parte le partecipa. Là non c’è solo Stellantis, che peraltro oggi è meno importante perché sempre più francese. In Germania i campioni nazionali sono molti di più, aziende di grandi dimensioni che possono permettersi di avere centri di R&S, rapporti strutturati con il mondo dell’università, e che quindi sono molto più in grado di capire quali strade intraprendere».

Proprio il rapporto tra imprese e università, un’altra chiave per sapersi districare in un mondo che cambia ogni giorno, dipende anche dalla dimensione: lo sa bene il presidente di Federmeccanica, che è anche presidente della Cuoa business school. «In Italia si accusa spesso il mondo dell’università di non essere abbastanza aperto alle imprese» rimarca Visentin, «ma anche il mondo delle Pmi a volte fa fatica a interfacciarsi con quello universitario. Non è una questione di attitudine, ma di avere l’organizzazione, le competenze e le risorse economiche adeguate». Un discorso analogo si può fare sugli investimenti in ricerca e sviluppo. «Li si misura spesso in percentuale sul fatturato, ma credo che attivare iniziative di R&S sia più una questione di valori assoluti. Se per esempio ci vuole un milione di euro per assumere ingegneri che sviluppino un’evoluzione dei materiali, per un’azienda con un fatturato da 10 milioni è un bel problema, per una da 200 milioni molto meno». Allo stesso modo, le piccole imprese non possono permettersi una gestione delle risorse umane professionalizzata. «È uno dei capitoli che mi sta più a cuore» precisa Visentin, «nella maggior parte delle nostre imprese l’hr è l’imprenditore, con un’ottica a volte paternalistica. Magari il clima è molto favorevole per i dipendenti, ma oggi è cambiato il mondo e non basta più. La stessa pandemia ha messo in evidenza una reinterpretazione dei posti di lavoro, non solo in termini di smartworking ma anche nell’attrattività del proprio modello di business. Per attrarre talenti ed evolvere le relazioni industriali ci vuole una struttura con competenze specifiche».

Ma il motivo forse più importante di tutti che spinge verso una maggiore dimensione delle nostre imprese è un altro: «L’azienda strutturata è quella che dovrebbe essere sempre più artefice del proprio destino e del proprio modello di business» mette in evidenza il presidente di Federmeccanica, «questa è la maniera per evolvere dallo status di terzisti d’Europa. La grande creatività delle imprese italiane è riconosciuta in tutto il mondo, ma molto spesso dei suoi frutti godono soprattutto i clienti. Chi sa mettere a fattore e sa guidare i mercati trae vantaggio dell’inventiva dei nostri produttori, che finiscono per fare una battaglia sui costi, con marginalità più basse. Ma tanto più l’impresa è in grado di strutturarsi, quanto più può permettersi di cambiare modello di business, di ragionare sul posizionamento sul mercato, e quindi di recuperare la marginalità che le permette di pagare queste possibilità. Se invece l’impresa continua a combattere sui prezzi la marginalità resta bassa, e fatica ad acquisire le competenze che possono darle struttura».

Sulla strada che porta a una crescita della dimensione media delle aziende ci sono alcuni miti da sfatare, almeno nei loro aspetti negativi un po’ sottaciuti. «Ci sono una serie di effetti collaterali non banali che vanno sottolineati con coraggio» dice Visentin. «Magari usciamo dall’eccessivo familismo che caratterizza un po’ le nostre imprese. È un tappo. Familismo vuol dire portare a bordo le seconde e terze generazioni anche se non hanno le competenze per farlo. Non è una cosa positiva». Meglio però sgombrare il campo dagli equivoci. «Questa non è un’accusa contro le aziende familiari» sottolinea il presidente di Federmeccanica, «in Germania sono la prevalenza ma sono anche molto più grandi delle nostre: si può essere un’azienda strutturata con l’ownership o anche l’amministrazione in mano a membri della famiglia, l’importante è che dietro ci siano le competenze. In Italia c’è un eccessivo familismo, spesso appena il figlio del titolare entra in azienda ha subito l’auto e uno stipendio diverso. Queste sono dinamiche che bloccano e limitano, bisogna avere il coraggio di dirlo: non c’è un contesto meritocratico». Cui va aggiunto un addentellato di natura fiscale. «Quando si coprono dei privilegi non di rado si gestisce un po’ di nero. Se si passa a una logica di trasparenza non lo si riesce più a nascondere, l’effetto è una riduzione dell’evasione fiscale».

Sugli strumenti da utilizzare per rafforzare le imprese, Visentin ha le idee chiare. «Credo che dovremmo spingere in questo momento su programmi di M&A» afferma il presidente di Federmeccanica, «non pensare a una crescita per fattori interni perché è troppo lenta, dobbiamo immaginare una crescita veloce fatta per M&A. È quello che sta avvenendo sul mercato, ma gli M&A non dovrebbero essere guidati da fondi finanziari, bensì dalle nostre imprese. Il cambiamento del modello di business può avvenire più facilmente acquisendo realtà complementari, magari su settori diversi dove si intravede il germe per un cross selling, piuttosto che un’estensione della gamma tecnologica, fattori che permettono di evolvere il modello di business velocemente». Per Visentin il limite dell’M&A agito dai fondi di investimento è un orizzonte di non lungo termine: «In genere i fondi entrano, fanno due o tre operazioni straordinarie che riescono a essere vendute come operazioni di gran valore, il che permette loro di tornare a vendere sul mercato a valori superiori, nel giro di 4-5 anni».

Per aiutare le imprese a guidare i processi di M&A, è fondamentale la parte di corporate finance che serve per finanziare l’operazione. «Su questo chiediamo al governo di indirizzare in maniera un po’ più mirata tutta le disponibilità, veicolate su Cdp, magari incrementandole» precisa Visentin, «c’è bisogno dell’aiuto di uno Stato che entra con capitali pazienti, lascia la governance nelle mani delle imprese non per tornare all’Iri ma con lo spirito di supportare anche la parte finance senza che le imprese abbiano i fondi che soffiano sul collo forzandole a fare scelte di medio e non di lungo periodo. Se dobbiamo fare un cambiamento epocale dei nostri modelli di business, non si può pensare di chiudere in 4-5 anni». Federmeccanica chiede che si diano alle imprese gli strumenti per muoversi autonomamente. «Non possiamo certo chiedere al governo che si sostituisca a noi, che ci dica lui, restando nel caso dell’automotive, se investire sulle batterie piuttosto che sui chip» insiste Visentin, «lo Stato deve mettere le imprese nelle condizioni di rafforzarsi, così che possano trainare il proprio sviluppo, e non essere trainate». Manca un elemento: la capacità di fare M&A in modo efficace. «Al di là delle dimensioni bisogna essere capaci di farle, le acquisizioni» puntualizza il presidente di Federmeccanica, «un altro tipo competenza su cui nel Cuoa stiamo investendo molto, con programmi di formazione e percorsi che vorrebbero proprio aiutare gli imprenditori e le prime linee delle imprese a diventare bravi a gestire questi processi, per i quali non ci si improvvisa».

Imprese, dimensioni e svillupo

L’M&A ha dunque un ruolo centrale se davvero si vuole far crescere le nostre aziende. La buona notizia è che il 2021 è stato un anno record: 1.165 operazioni con un aumento del 32% sul 2020, un anno bloccato dal debutto della pandemia, per un controvalore di oltre 98 miliardi di euro, più 123% rispetto al 2020. Il 25% delle operazioni di M&A effettuate erano Italia su Italia; nel 57% dei casi una realtà italiana o il cui soggetto ultimo è una famiglia italiana ne ha acquisita una estera; nel 17% è accaduto viceversa. Considerata la debolezza pandemica di tante imprese, poteva andare peggio. «Il 2021 è stato un anno molto molto buono anche a livello internazionale» dice Max Fiani, partner di Kpmg esperto di M&A, «con il record dei volumi e anche in termini di controvalore. Anche l’Italia ha fatto un salto molto consistente e inaspettato, anche se in parte dovuto a un 2020 molto negativo, con numerose operazioni bloccate che poi hanno avuto esito positivo l’anno successivo». L’aspetto più interessante è quel che Fiani definisce democratizzazione dell’M&A. «Non è più considerata un’attività ad alto rischio, ma una strategia di crescita aziendale che deve essere integrata con quelle abituali per linee interne» sottolinea il partner di Kpmg, «oggi tra gli acquirenti seriali non ci sono solo i soliti Eni, Enel e Leonardo, ma anche una serie molto ampia di aziende di grandi famiglie, dai Benetton ai De Agostini ai Pesenti». Le imprese più attive nell’M&A accanto al Cfo hanno un team strutturato che si dedica all’M&A, cercando opportunità. «A questo fenomeno di massa ha contribuito in maniera molto rilevante il private equity, che copre un 30-40% dei casi, spesso concentrato sulle operazioni di taglio più elevato, la stragrande maggioranza tra soggetti industriali» rimarca Fiani. «Il private equity entra nelle aziende, spesso medio piccole familiari, e le deve fare crescere. Uno dei suoi contributi più significativi è quello di spingerle a fare nuovo M&A, anche a livello internazionale, fornendo un supporto manageriale e una rete di consulenti in grado di seguire l’azienda nel post deal, con le attività di integrazione da cui deriva buona parte del plusvalore».

Fiani non è critico come Visentin verso l’M&A non guidato direttamente dagli imprenditori. «Sono due visioni complementari. Il private equity è un ponte, un passaggio, che ha un’ottica finanziaria: deve estrarre valore in un periodo breve» sottolinea il partner di Kpmg, «ma secondo me è efficace, perché dà un’accelerata di maturità manageriale e organizzativa all’azienda. Ma è pur sempre un passaggio che porta da un punto a fino a un punto b, mentre l’azienda va dal punto a fino a infinito: ogni imprenditore vede l’azienda che va avanti senza di lui, oppure una vendita, ma ha sempre una visione di lungo periodo».

L’altro aspetto positivo è che la dimensione delle imprese che agiscono l’M&A si sta abbassando progressivamente. «Una media azienda con un fatturato sopra i 100 milioni può tranquillamente avere quel che serve per fare bene l’M&A» mette in evidenza Fiani, «un membro del board, magari una figura esterna o legata alla famiglia dell’imprenditore, un ex consulente, o un ex banker, che supporta questa attività. Si può creare un mini-team dedicato, che è essenziale nell’affiancare l’ad nel percorso».

Ma l’M&A comincia a attecchire anche tra realtà ancora più piccole. «Con il programma Elite di Borsa Italiana sostenuto da Confindustria l’asticella si è abbassata» continua il partner di Kpmg, «20 anni fa pensare che un’azienda da 15-20 milioni di fatturato facesse M&A era impensabile, oggi invece non è una strada preclusa. Certo è più facile che un’azienda di quelle dimensioni sia preda che predatore, ma se c’è la volontà e la capacità è possibile un’acquisizione, magari da 2-3 milioni. Si parte con operazioni piccole anche per fare un percorso di apprendimento, e poi eventualmente crescere». È quel che deve fare in  fretta un numero importante di Pmi, per guadagnarsi una prospettiva credibile.