Donato Iacovone problemi innovazione
Donato Iacovone, presidente di Webuild

L’innovazione è connaturata al genere umano. Senza di essa saremmo ancora nelle grotte a dipingere con le dita e a cacciare con lance di osso. Invece, fortunatamente, non è così. Eppure, mai come oggi, bisogna iniziare a parlarne in modo critico e non solo fideisticamente entusiastico. Per questo abbiamo trovato sei problemi che affliggono l’innovazione e abbiamo chiesto chiarimenti a un esperto di questi temi come Donato Iacovone, presidente di WeBuild e già amministratore delegato di EY.

Donato Iacovone sui problemi dell’innovazione

Siamo partiti da una domanda: chi l’ha detto che il termine innovazione debba per forza di cose fare rima con digitale? La stessa definizione di imprese innovative sconta questa sovrapposizione semantica e la colpa è probabilmente della fascinazione per l’ecosistema della Silicon Valley, a lungo visto come Eldorado per i giovanotti di belle speranze e diventata rapidamente la patria delle più grandi ineguaglianze.

D’altronde, se una persona su 11.600 che vive nell’area di San Francisco è un miliardario, poco meno dell’1% della popolazione è costretto a vivere per strada. Facile capire come si sia arrivati a ciò, visto che il costo di un appartamento con una camera da letto nella Bay Area è, in media, di 3.400 dollari al mese, mentre il costo complessivo della vita può essere anche dell’80% superiore alla media degli Stati Uniti secondo il sito specializzato PayScale. Nessuno può ovviamente mettere in dubbio il ruolo fondamentale che il digitale ha avuto nel salvare l’economia italiana durante il Coronavirus: senza Zoom, Vpn e via dicendo il pil invece che calare dell’8,9% sarebbe probabilmente crollato del 70% vista l’impossibilità di uscire di casa. Non per niente a “Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo” (cioè la Missione 1 del Pnrr) sono stati dedicati 40,32 miliardi dal Piano di Ripresa, e altri 9,5 tra React Eu e Fondo complementare.

I problemi dell’innovazione: il punto di Donato Iacovone

Ma c’è una difficoltà: «Ci stiamo preoccupando – ci racconta Iacovone – molto di innovare e delle tecnologie, ma molto poco delle competenze. Ogni volta che c’è una novità la trasferiamo sul digitale. L’ultimo esempio è il Metaverso, che stiamo usando con le stesse logiche con cui useremmo nella vita reale. Ma serve una nuova cultura, una nuova comprensione delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Abbiamo dimenticato la parte relativa alla comprensione delle novità, non abbiamo fatto lo sforzo di cambiare la cultura sia di chi eroga sia di chi riceve beni o servizi. Non è un caso che le società di consulenza oggi abbiano sempre più laureati in psicologia o filosofia nei loro organici». 

Secondo problema: innovazione significa offrire gratuitamente o quasi servizi che altrimenti sarebbero a pagamento per l’azienda o per il cliente? Ovviamente no.

Prendiamo Uber, per esempio: epitome del mondo digitale e innovativo che si libera di lacci e lacciuoli, ha chiuso il 2019 (citare gli anni successivi sarebbe fuorviante vista la catastrofe del Coronavirus) con ricavi per 3,1 miliardi di dollari e perdite per 1,09. Il modello di business era semplice: non più le tariffe dei taxi, non più licenze, ma il trionfo del “lavoretto”, del desiderio di affiancare alla prima occupazione un modo per incrementare i propri guadagni. «Nel momento in cui la tecnologia trasforma un servizio in commodity – chiosa Iacovone – allora lì la faccenda si complica. Oggi molti servizi sono fruibili in tempi rapidi tramite web. Questo vuol dire che le aziende che prima li offrivano a pagamento devono reinventarsi, ma anche quelle che per prime hanno trasformato il modello di business, nel momento in cui devono fare margini, devono garantire servizi accessori. Adesso stiamo avendo una fase in cui tutto quello che era gratis inizia a differenziarsi e lo si deve pagare se si vuole che di valore, magri senza interruzioni o senza pubblicità». 

Terzo tema: innovazione fa spesso rima con omologazione.

Che cosa distingue, ad esempio, i vari Uber Eats, Deliveroo, Just Eat? Forse soltanto l’abitudine e il fatto che il proprio ristorante preferito sia, o meno, presente su questa o quell’app. Per questo, alcuni – si veda alla voce Glovo, ad esempio – hanno per forza di cose iniziato a diversificare. «Non dobbiamo frenare la commodity – aggiunge Iacovone -, che è inevitabile e irreversibile. Se non c’è più avviamento è inutile insistere. È come il business del telefono: chi si è fermato al semplice mettere a disposizione una rete, oggi è uscito dal mercato, chi sopravvive è chi è capace di reinventarsi. Diventerà così per quasi tutto ciò che la tecnologia fa diventare commodity, cioè fruibile a costo zero. E le aziende dovranno fare di tutto. Ma quando si cambia business, i rischi di fallimento sono molto più alti rispetto a quando ci si concentra su quello che si è sempre fatto». 

Quarto problema, strettamente collegato al precedente: esiste un momento in cui l’innovazione, ormai diventata di dominio pubblico, si trasforma in commodity.

A questo punto, iniziano i grattacapi. Non esiste la possibilità di crescere all’infinito, così come non si può diventare la piattaforma di streaming o il social network d’elezione per ogni singolo individuo sulla Terra. Di più: ipotizzando anche con ogni abitante del pianeta scarichi proprio quell’app, gli investitori si troverebbero poi nella necessaria posizione di abbandonare un meccanismo che non può più crescere numericamente e che avrebbe difficoltà a espandersi ulteriormente. È il paradigma del capitalismo all’ennesima potenza che viene messo in crisi. Non solo: «Se tutto quello che faccio – ci spiega Iacovone – dopo un po’ non vale più nulla, ogni volta bisogna sforzarsi di trovare un nuovo business model e un nuovo sistema per aumentare la redditività. C’è sempre una tecnologia più all’avanguardia che può attaccare quello che si fa e che potrebbe portare delle perdite. Per questo bisogna preoccuparsi di fare innovazione incrementale o disruptive. Perché non appena diventa disponibile per tutti si tramuta in commodity e perde automaticamente del suo valore esclusivo intrinseco». 

Quinto tema complesso: attualmente, ciò che è digitale, innovativo, tech, ha spesso e volentieri un valore percepito assai superiore a quello di chi produce beni simili ma non si ammanta di una simile aura di novità.

Il caso più eclatante è quello di Tesla, che ha un valore di Borsa vicino al trilione di dollari, ovvero tre volte la somma di Volkswagen, Ford, GM, Toyota e Bmw messe insieme, ma che ha venduto nel 2021 meno di un milione di vetture. «In questo caso tutto dipende dalla capacità di chi crea un’aspettativa di tramutarla poi in valore. Dietro Tesla c’è Elon Musk, su cui tutti ripongono grande fiducia e pensano che diventerà il nuovo “re” delle automobili. Certo, ora che tutti stanno iniziando a fare auto elettriche forse è un po’ più difficile immaginare che si possa tenere la corona, ma quando questo sarà diventato evidente per tutti probabilmente avrà già spostato l’attenzione verso qualche altro scenario, magari nello spazio. Da una parte abbiamo aziende tradizionali che in borsa valorizzano il capitale netto, dall’altra realtà che lo moltiplicano per cento». Senza contare che c’è sempre il rischio di finire come Meta, che dopo aver raggiunto e superato il trilione di capitalizzazione, ha perso il 50% del suo valore facendo uscire Mark Zuckerberg dalla top 10 degli uomini più ricchi del mondo. Il motivo? Non aver rispettato le attese degli investitori. In generale, le aziende tecnologiche vivono un momento di involuzione sui mercati a causa di un cambio di prospettive per gli investitori che iniziano a vedere i limiti del modello di business. Dall’inizio dell’anno, Spotify ha perso il 40%, PayPal il 39, Zoom e Meta il 36, Amd il 24%. 

Sesto e ultimo macro-tema: l’innovazione porta agli oligopoli?

È il timore che viene scorrendo la lista dei dieci uomini più ricchi del mondo. Ebbene, di questi, sette provengono dal mondo dell’innovazione e della tecnologia e assommano oltre 1.000 miliardi di dollari di patrimonio. Significa che queste sette persone detengono la stessa ricchezza del Pil del Messico o dell’Indonesia, Paesi che contano, rispettivamente, 130 e 275 milioni di abitanti. Non solo. Al di là della ricchezza estrema (beati loro!) dei fondatori di queste aziende, sono le loro dimensioni a creare qualche grattacapo. Fino ad arrivare a storture come nel caso di Apple che non ha voluto rilasciare informazioni all’Fbi su sospettati di crimini efferati. Perché si sentono ormai “larger than life” (come direbbero gli anglosassoni) e sopra alle leggi degli Stati. Almeno fino a che non arriva un’altra azienda innovativa…