E se fosse venuto il momento di dare ragione Giulio Tremonti, il primo economista a scoprire i limiti della globalizzazione e i grandi problemi creati dalla caduta delle barriere, il mondo come un unico immenso mercato? In effetti, la pandemia prima, con la mancanza apparentemente incomprensibile di mascherine (prodotte tutte solo nella lontanissima Cina) e oggi la guerra in Ucraina, che tiene blinfloccate nei porti le navi cargo strapiene di grano destinato a mezza Africa, hanno acceso più di un riflettore e avviato più di una riflessione su un sistema economico, la globalizzazione (iniziata negli anni ’90 con gli accordi Gatt e rafforzatasi negli anni 2000 con l’ingresso della Cina comunista nel Wto), che avrebbe dovuto portare benessere e democrazia in ogni angolo del mondo.

Invece siamo qui a calcolare, per dire, le perdite dell’industria dell’auto che non riesce a produrre vetture per mancanza di componenti elettronici, a fare i conti con l’inflazione mondiale perché l’offerta s’è rarefatta, i costi di trasporto sono letteralmente esplosi (i noli marittimi a + 1000%!), a considerare le perdite miliardarie perfino dei giganti tecnologici sia negli Usa sia in Cina (da cui il crollo continuo del Nasdaq).

Quanto, poi, alla globalizzazione dei buoni principi e delle regole della democrazia, forse è meglio lasciar perdere se contiamo il numero dei morti in Ucraina (e non solo) e facciamo l’elenco dei Paesi dove i diritti umani sono un “lusso occidentale” a cominciare dalla Russia di Putin (leggere la Politkovskaja) e dalla Cina di Xi Jingping.

Che cosa è successo? É successo, per uno di quei non rari paradossi che stanno dietro i tornanti della storia, che la globalizzazione dopo essere stata una risorsa planetaria (e fatto arricchire le multinazionali, diciamolo) è diventata un serio problema e non solo perché all’inizio della pandemia di Covid mancavano le mascherine e oggi l’approvvigionamento di componenti elettronici è diventato un vero dramma per l’industria mondiale.

Un problema tale che i francesi – ma il test darebbe gli stessi risultati in qualsiasi altro Paese europeo – intervistati da un team di economisti del Cepii, Centre d’études prospectives et d’informations internationales, dichiarano che la globalizzazione è diventata ormai una minaccia per il Paese (il 60% del campione nel 2020, era il 49% nel 2017) e che la Francia deve trovare il modo di difendersi (il 65% del campione contro il 45% di qualche tempo fa).

Ma è proprio sulle strategie di difesa, chiamiamola pure  la “de-mondializzazione”, che gli economisti (e non solo quelli del Cepii che hanno appena pubblicato i risultati del loro lavoro in un libro, “La folle historie de la mondialisation”) si dividono e non hanno idee chiare.

Nel frattempo, hanno inventato un nuovo termine preso a prestito dall’industria elettrica: decoupling (in francese decouplage, in italiano disconnessione) che è un po’ come staccare i fili.

Non si sa ancora quanta dispersione (di valore) stia generando questa fase di decoupling, ma forse se ne può avere un’idea leggendo le parole del presidente cinese Xi Jingping che all’agenzia ufficiale Xinhua ha dichiarato con assoluta convinzione il 18 gennaio scorso che “i Paesi del mondo debbono continuare con il multilateralismo” mentre i cinesi, per quanto li riguarda, debbono “cercare a tutti i costi l’integrazione piuttosto che il decoupling”.

Strategia non facile, fa osservare sul “Quotidiano del popolo” il direttore dell’Accademia nazionale di scienze sociali Yu Yongding, se sono gli altri, nello specifico gli americani (prima con Trump che nel 2018 ha dichiarato una vera e propria guerra doganale a Pechino, come si sa, e poi con Biden che anzi ha marcato in chiave ideologica, democrazia contro autocrazia, il giro di vite commerciale) a rendere sempre più difficili le relazioni economiche.

Per cui la risposta non può che essere una strategia a due velocità – gli economisti la definiscono “circolazione duale” – con l’obiettivo di trovare un equilibrio tra “sicurezza” del mercato interno e apertura al mondo. Da pochi mesi, infatti, è entrata in vigore in Cina una legge che impone alle imprese di cercare fornitori interni in modo da non dipendere più (o sempre meno) da fornitori internazionali, cioè americani, soprattutto nell’industria elettronica (il target, da qui al 2025, è ridurre questa dipendenza tecnologica dal 70 al 40%).

Naturalmente vale anche il discorso contrario. Perché se la Cina resta dipendente dall’Occidente in certi settori pregiati dell’apparato produttivo, anche l’Occidente non può pensare di disconnettersi completamente dai fornitori di mezzo mondo quando, per esempio, deciderà di sospendere l’import di energie fossili per passare alle energie rinnovabili. Le nuove tecnologie “verdi”, infatti, avranno bisogno delle terre rare che si trovano praticamente solo in Cina (al 90%), del cobalto che arriva dal Congo (al 60%), del litio che arriva anch’esso dalla Cina e dal Cile (al 45%).

Bastano queste cifre per capire che la “disconnessione” delle filiere globali non sarà un’operazione semplice (e conveniente). Finora il “decoupling”, a cui fa da contraltare il “bodylocking”, la chiusura delle frontiere e l’innalzamento delle barriere doganali (come hanno fatto gli Usa con il “Foreign Companies Accountable Act”), al momento è piuttosto una posizione ideologica di certe scuole di pensiero economiche antiliberali. Vedremo se si riuscirà a costruire un modello di globalizzazione adatto a un mondo sempre più insicuro.