di Nello Rapini, Partner – Financial Grants and Facilities Leader Rsm Italy
Il tema della perdita di competitività del nostro sistema industriale ci accompagna ormai da alcuni decenni, già successivamente al primo grande shock energetico degli anni Settanta (che pensavamo di non rivivere più) pochi anni dopo il famoso boom economico, si cominciarono a percepire i primi episodi di quella che poi soprattutto negli anni Novanta, diventò una vera e propria “fuga delle aziende”.
Con una certa ricorrenza in Italia si torna a parlare delle delocalizzazioni industriali che a varie ondate ed in settori diversi, hanno interessato il nostro intero settore produttivo, le motivazioni sono molteplici, la stragrande maggioranza delle quali si sono poi rivelate delle vere e proprio effimere illusioni. Si portavano fuori dai confini nazionali le produzioni per ridurre i costi del personale, per avere contributi pubblici massicci, per godere di benefici fiscali, per nuovi mercati di sbocco, per ottimizzare la logistica, ecc. ecc. Abbiamo così assistito a periodiche migrazioni verso quelli che di volta in volta apparivano come vere e proprie nuove “terre promesse”, prima i Paesi dell’Est Europa, come Romania e Serbia, poi in special modo per le confezioni, la Tunisia, ed infine l’estremo oriente, Cina, Vietnam, ecc.
Secondo i dati Istat, i principali fattori che inducono un’azienda a trasferire attività o funzioni all’estero sono la riduzione del costo del lavoro, importante per il 62% delle imprese, la riduzione di altri costi d’impresa (49%), e la necessità di un maggior concentramento delle attività strategiche di Core business in Italia (40%).
Il minor costo del lavoro rappresenta in tutti i casi un fattore trainante delle delocalizzazioni. Le industrie manifatturiere ad alta tecnologia, in particolare, ritengono fondamentale l’abbattimento del costo del lavoro (81% del totale), e la riduzione degli altri costi d’impresa (68%). Nel settore dei servizi, soprattutto nelle imprese e nelle attività professionali scientifiche e tecniche, risulta importante il miglioramento della qualità e lo sviluppo di nuovi prodotti (47%).
Hanno delocalizzato all’estero soprattutto le grandi imprese, il 5,6% contro il 3% delle medie, e il 4,6% delle imprese appartenenti a Gruppi contro lo 0,6% delle imprese indipendenti. La dimensione aziendale e l’appartenenza a gruppi di impresa risultano quindi essere fattori determinanti per orientare la scelta.
L’estero ha attratto maggiormente le imprese industriali (4%) rispetto a quelle del settore dei servizi (2%). Nel settore manifatturiero, in particolare, le industrie ad alta e medio-alta tecnologia trasferiscono all’estero con percentuali pari a più del doppio della media generale, rispettivamente all’8,5% e al 6,6% del totale. Più della metà dei trasferimenti all’estero, il 60%, si sono indirizzati verso Paesi dell’Unione europea.
Guardando ai Paesi extra-europei, molte delocalizzazioni hanno interessato l’India (9%), gli Stati Uniti e il Canada (6%), e la Cina (5,6%). In particolare, le imprese industriali si sono dirette verso la Cina per l’attività principale di produzione di merci (10%), mentre le aziende del settore terziario hanno visto l’India come un’ottima sede per le funzioni aziendali di supporto, come i servizi informatici e di telecomunicazione (36%), e le attività di ricerca e sviluppo (20%).
Nel complesso, i 5 Paesi con il maggior numero di dipendenti di società italiane residenti all’estero sono, in ordine: Stati Uniti, Brasile, Cina, Romania e Germania. Questo trend però ora sembra rallentare.
Nel periodo 2015-2017, solo il 3,3% delle medie e grandi imprese ha trasferito in altri Paesi attività o funzioni aziendali prima svolte in Italia, contro il 13% del periodo 2001-2006 (Annuario statistico Commercio estero e attività internazionali delle imprese Istat & Ice del 2019)
Si comincia ad assistere a fenomeni di “back reshoring” o anche di rafforzamento e consolidamento della presenza aziendale in Italia di imprese a capitale straniero, ed infine a vere e proprie nuove localizzazioni nel nostro Paese di investitori esteri.
«Lo stabilimento di Atessa in Abruzzo è il più importante plant industriale della Honda in Europa per la produzione di motocicli», recisa Marcello Vinciguerra, managing director Honda Italia Industriale Spa. «L’anno scorso abbiamo festeggiato i 50 anni dall’insediamento in Italia e già dal 2017 abbiamo raggiunto la produzione complessiva di un milione di pezzi del nostro modello di punta: l’SH. Oggi la Honda Italia conta 600 dipendenti (salgono a circa 900 nel periodo di alta stagione) ed ha una linea produttiva da cui possono uscire fino a 500 motocicli al giorno, numeri così lontani dai 2.800 esemplari nel primo anno (12 moto al giorno)», continua con orgoglio Marcello Vinciguerra. «Ma tutto ciò è possibile anche grazie ad una filiera di fornitori locali che sono cresciuti con noi e con i quali continuiamo ad avere un reciproco rapporto di rafforzamento delle competenze e del know how. Proprio in questi giorni stiamo verificando infatti la possibilità di costruire un vero e proprio Contratto di sviluppo di filiera che consolidi ulteriormente la nostra presenza in Abruzzo e ci permetta di crescere ancora nei numeri e nella qualità dei nostri prodotti».
«Il settore del turismo è probabilmente uno di quelli che ha sofferto maggiormente per le conseguenze della pandemia». Comincia così Marcello Mangia, presidente Aeroviaggi SpA: «Ci siamo ritrovati in pochissimi mesi a dover ripensare la nostra offerta turistica con un progetto di completa ristrutturazione di ben sei villaggi in Sicilia e Sardegna, trasformandoli in resort e spostando verso l’alto la nostra offerta. Abbiamo presentato al Mise un Accordo di Sviluppo di circa 80 milioni con investimenti infrastrutturali in linea con le nostre nuove politiche di marketing e con le aspettative della nostra clientela. Proprio in questi giorni abbiamo chiuso un importante accordo con un fondo di private equity statunitense che ci affiancherà in questo percorso, supportandoci finanziariamente, ma lasciando interamente a noi la gestione operativa. La nostra capacità di attrarre investitori esteri qualificati è la dimostrazione della bontà del nostro progetto, e la cosa ci inorgoglisce e al contempo ci responsabilizza ancor più anche nei confronti dei nostri dipendenti e dei territori nei quali siamo insediati».