di Francesco Priore

I climber aziendali si dividono in due categorie: quelli che si trovano bene anche nell’azienda di primo impiego e aspirano a lavorare lì facendo una carriera “verticale” e chi, pur trovandosi bene, desidera cambiare sapendo che cambiando, a certe condizioni, farà carriera più rapidamente. A volte i percorsi si intrecciano: i primi, se trovano ostacoli insormontabili, solo a malincuore migrano in un’altra impresa; i secondi vengono molto apprezzati per la capacità di rigenerarsi e solo di fronte ad una crescita notevole rinunciano a cambiare.

Entrambe le persone costituiscono un patrimonio per le aziende. Chi decide di rimanere nella stessa azienda sa che deve impegnarsi molto di più dei suoi colleghi, deve emergere facendosi notare per i risultati e per la disponibilità, deve essere flessibile, pianificare ogni passaggio stando attento a non crearsi inimicizie, anzi deve essere disponibile ad aiutare gli altri, con naturalezza e semplicità. Se ci riesce ha ottime probabilità di crescere: impegno, flessibilità e disponibilità sono doti di un leader, bisogna essere riconosciuti e non chiedere riconoscimenti. Alla fine, gli sforzi per fare carriera sono certamente un vantaggio per l’impresa, ma sono coerenti e necessari per coronare le proprie aspirazioni. C’è il rischio, molto diffuso, che queste persone si affezionino all’azienda, ma l’impresa difficilmente ricambia il sentimento: può premiare con carriera ed emolumenti, ma fsolo qualche raro imprenditore illuminato manifesta sentimenti veri.

Il secondo tipo di climber, invece, arricchisce le aziende con le proprie esperienze e conoscenze: queste persone in genere lavorano per tre anni o poco più in un’azienda. Il primo anno trasferiscono all’impresa le proprie conoscenze e competenze e questo è un vantaggio per la stessa; il secondo anno, invece, apprendono le caratteristiche peculiari dell’impresa, sistema produttivo, ottimizzazione dei processi e le skill più originali e più utili. Questi due percorsi in genere non sono così netti, spesso si incrociano. Il terzo anno, invece, danno il meglio di se stessi con grande vantaggio per l’impresa, ma allo stesso tempo si adoperano per render noto, nell’ambito del lavoro, i risultati raggiunti, in modo che costituiscano un’ottima referenza per quelle imprese che contatteranno o da cui verranno contattati. Oggi, attraverso un’intelligente comunicazione sui social, è facile essere contattati, non altrettanto essere selezionati. Queste persone danno un forte contributo allo sviluppo di un’impresa, perché hanno un corredo complesso di conoscenze che nessun master potrà mai fornire. Spesso le imprese si sentono tradite quando un collaboratore così capace passa alla concorrenza, dimenticando i vantaggi di cui hanno goduto. Sarebbe opportuno, all’atto dell’assunzione, capire che una persona così brava, se ha cambiato spesso, non è perché è stato costretta, ma perché è interessato a cambiare. Appurate le capacità di queste persone, le imprese potrebbero trovare per le stesse un percorso di crescita all’interno dell’azienda, anche in un settore parallelo.

Il segreto di quelli che hanno maggiore successo, cioè che arrivano ad essere tra i numeri uno di un’azienda, sta nel fatto che non solo hanno fatto diversi cambi, ma anche che hanno cambiato tipo di impresa e di settore. Il Ceo di un’impresa deve essere in grado di pianificare, delegare e verificare l’attività dell’azienda: se ha ottime conoscenze ma settoriali difficilmente riuscirà a governare un’azienda importante.

Le imprese che fanno crescere le persone che non amano cambiare, ma che allo stesso tempo dimostrano con i fatti di essere una manna per l’azienda, corrono un altro rischio. Una persona raggiunge eccellentemente gli obiettivi e giustamente viene promossa: se è valida, queste promozioni si susseguono e i risultati dimostrano che la nuova responsabilità è stata attribuita correttamente perché è una persona competente. Ad un certo punto, se il successo si interrompe e anzi si verificano insuccessi (se non grossi disastri), ovviamente la colpa viene attribuita a quel dirigente, che comunque ha continuato a lavorare intensamente e diligentemente. La colpa o responsabilità non è sua ma di chi lo ha promosso perché lo ha portato ad un livello di incompetenza. Questo è noto come principio di Peter, che spiega tanti dissesti procurati da persone promosse al loro livello di incompetenza. Anche in questo caso, se l’impresa avesse verificato la capacità di gestire realtà diverse da quelle consuete, avrebbe capito in anticipo gli eventuali rischi. Un leader deve essere disponibile ma non acquiescente, determinato nell’azione dopo aver scelto il percorso per raggiungere gli obiettivi confrontandosi con i collaboratori; deve aver il coraggio di delegare sapendo che la responsabilità della delega è sua, deve far fare agli altri, così questi crescono, e non essere un collo di bottiglia.