Non è propriamente dietro l’angolo, l’Abbadia di Stura. Qui, a una decina di chilometri dal centro di Torino, non ci si capita per caso: ci si deve venire apposta. Il numero civico è il 200, e trovarlo non è semplice, incastonato com’è tra i resti dell’antico complesso medievale che comprendeva la chiesa, l’ospedale, le strutture di accoglienza per i pellegrini, oltre alle cascine e ai mulini. Al citofono, l’inno di Mameli intrattiene il visitatore. Nel cortile, un’attempata Fiat 1200 guarda con benevolenza una fiammante Jaguar F-Type Coupè in un simbolico passaggio del testimone. Ed è davvero una storia di passaggi del testimone e di rinascite, quella di Aurora.

A partire dal nome: una nuova alba dopo le brutture della prima guerra mondiale e poi rinata qui, alla periferia di Torino, nel secondo dopoguerra, dopo che le bombe del ’43 avevano distrutto la manifattura di via della Basilica, all’ombra del Palazzo Reale, con il passaggio del testimone a Franco Verona, già dipendente di quella “Fabbrica italiana di penne a serbatoio Aurora” fondata nel 1919 da Isaia Levi. E di nuovo rinata nel 2011 con un secondo passaggio del testimone, a Cesare Verona, omonimo di quel bisnonno che già nel 1889 importava in Italia le prime macchine per scrivere, quelle dell’americana Remington.

«Se non ci fossero state le norme autarchiche non so se sarebbe esistita Olivetti», butta lì, mentre ci viene incontro in un salottino moquettato di rosso, nella palazzina ottocentesca, dove un paio di juke box della sua collezione personale dialogano con le vetrine dove fanno mostra di sé alcuni dei pezzi della storia recente del brand sorridente, brandendo un telefono, anzi due: uno smartphone, col quale scatterà immagini particolareggiate – alcune le vedete in quste pagine – dei pezzi in lavorazione, con una perizia da consumato fotografo, e un cordless per mantenere sotto controllo ogni processo e ogni interazione aziendale, dall’arrivo dei fornitori alle giacenze di magazzino, dalla prototipazione alla distribuzione, dagli accordi commerciali al ristorante L’Officina, che non ha nulla da invidiare ai blasonati locali del centro storico, neppure nel menu.

«Antonio, due caffè, per favore, di quelli buoni. Come lo prende?». Macchiato, ed è buono davvero. «Abbiamo mezz’ora, venga», e ci trascina in un turbinio, nell’Officina della Scrittura, il primo museo al mondo dedicato al segno dell’uomo, inaugurato nel 2016 grazie all’Associazione Aura Signa: 2.500 metri quadri tra spazi espositivi, archivio, biblioteca, auditorium, aree per gli eventi aziendali, spazi per la didattica. «Abbiamo un sacco di progetti, anche con gli Its», dice, mentre in sottofondo il vociare di una scolaresca accompagna la nostra visita. «Quanto c’è di suo in questi spazi»? «Poi glielo dico. Guardi, i primi segni, i graffiti, la scrittura cuneifome» e risponde al telefono; «Si metta sotto questa doccia», ci trascina sotto a quello che in effetti sembra un doccione, ma è un altoparlante, davanti a uno schermo che ripercorre una parte dell’appassionante storia del marchio, mentre chiama in produzione; «Queste le ha fatte il mio papà» e si riferisce all’Auretta, la penna che dagli anni ’60 accompagna gli studenti, alla Ipsilon anni ’80, con l’inconfondibile fermaglio, alla Hastil e alla Thesi, esposte al Moma di New York mentre al cordless discute con gli uffici.

Quasi tralascia le 13 “regine”, le stilografiche che hanno fatto la storia: «c’è anche la concorrenza» e indica l’immancabile Montblanc, quando la vera icona della collezione è l’88 disegnata da Marcello Nizzoli nel ’47, venduta in otto milioni di esemplari, tanto per un periodo Aurora abbandonò la produzione degli altri modelli. In un angolo, un vecchio scaffale in legno con una macchina per scrivere ricostruita a partire da pezzi usati: «Vede, l’ingegno di mio nonno? L’autarchia vietava di importare macchine straniere e lui si inventò il refurbishment» e poi esce il suo, di ingegno: «Ecco, adesso lei si trasformerà in una goccia di inchiosto. Vada, vada…» e ci indirizza in un tunnel blu, mentre lui, come farà per tutto il tempo della visita, discuterà al cordless di produzione, accordi commerciali, distribuzione e segreti industriali che facciamo finta di non ascoltare.

Diventiamo una goccia, entriamo nel serbatoio della stilografica, percorriamo tutto il percorso fino a intravedere il pennino, lo attraversiamo. E siamo sulla carta. «Si sieda qui, lei che è giornalista, questo è il trono dello scrittore» e ci affida a una sontuosa seduta della quale lo schienale è davvero un pennino d’oro gigantesco, mente al cordless di sbraccia e si intuisce che non sempre in azienda le cose filano come si vorrebbe.

Un piano più in basso, la produzione: ogni pezzo viene lavorato a mano. Ed è quasi incredibile osservare come dal grezzo si arrivi a strumenti che coniugano precisione e arte. La mano femminile è evidente «Io appartengo al genere in minoranza in questa impresa», scherza per poi abbandonarci qualche minuto davanti a un attestato di un’iniziativa sulla parità di genere, mentre, sempre al telefono, si informa dello stato di avanzamento di un certo impegno. Ma l’occhio cade su un altro avviso affisso poco distante: “L’ultimo incidente sul lavoro qui si è verificato nel 2007”. Non c’è bisogno di aggiungere altro: l’attenzione è evidente.

C’è spazio per il cesello artigiano ma anche per i macchinari a controllo numerico entrati in azienda grazie ai benefici di Industria 4.0 in questi locali. «Vada lì, a vedere che colori, ma non fotografi nulla che sono le resine per le prossime collezioni» mentre lui con un collaboratore avvia l’ennesimo progetto. Non stupisce che nel 2022 sia stato insignito del Cavalierato del Lavoro, che sfoggia con discrezione sul bavero sinistro della giacca, mentre sul destro campeggia un pennino d’oro. Un passaggio a controllare come procede l’assemblaggio dell’ultima serie Versace, con l’inconfondibile testa di medusa sul fondello, e la lavorazione dei pennini, effettuata rigorosamente a mano in non meno di quindici passaggi, e attraversando una porta, quasi fosse un passaggio segreto, sbuchiamo negli uffici ottocenteschi.

«Si metta in posa»: è il momento della foto ricordo con Cesare Verona. Che poi scompare per andare a risolvere chissà quale affare. Sulle pareti ci sono le foto storiche della manifattura, le vecchie pubblicità e persino i piani di fabbrica dell’opificio. Ce n’è di che svagarsi fino al suo ritorno. Suona la sirena della pausa pranzo, come nelle fabbriche del Novecento.

Entriamo fuori tempo massimo a osservare il caricamento degli inchiostri e ci si sblocca un ricordo rivedendo la cartuccia lunga, che impropriamente chiamavamo Duocart, come il modello Aurora con due cartucce. «Lo sa che Enzo Ferrari firmava aveva paura delle contraffazioni e quindi firmava solo con un inchiostro viola che producevamo per lui?». E poi nei magazzini, a scoprire un time to market programmato al minuto, ma il sospetto è che sia solo un espediente per verificare l’ultimo arrivo. E infatti lo vediamo adocchiare alcuni scatoloni impilati in ingresso. «Ah, sono arrivate?» e si affretta ad aprire uno scatolone. «Poi facciamo ricamare i nomi», dice alla collaboratrice. Si intuiscono polsini e colletti tricolore e ci torna in mende l’inno apprezzato in attesa al citofono: devono essere le nuove felpe per il personale. 

La visita sarebbe finita, ma il bello deve ancora venire. «Io le devo una risposta» e arriva un fuori programma: «Dottore, mezzo maccherone al ferro e mezzo filetto al pepe verde, vero?» ed è di fronte a un bicchiere – ma di acqua S.Pellegrino – che Cesare Verona smette per un momento i panni dell’imprenditore multitasking per tornare a indossare quelli, scomodi, del “figlio di”, quelli della seconda generazione, che anziché la strada spianata si trova spesso davanti a un muro.

«Mio padre era assolutamente contrario ad aprire la fabbrica al pubblico e ad avviare un museo», spiega, con la voce che quasi si incrina e smorza la foga con la quale ci ha portato su e giù tra opificio, uffici, cortili. «L’ho avviato quasi contro la sua volontà nel 2009, giocandomi di fatto un pezzo della mia eredità». Già, l’eredità: «Giocandomene la mia parte, ho rilevato le quote dell’azienda di famiglia, mentre combattevo contro un tumore raro – a proposito di rinascite, ndr -.Nel museo, nell’azienda, c’è tanto di mio. Quasi tutto, come c’è tanto di mio in questa Aurora che dopo aver archiviato il primo secolo di vita si è buttata a capofitto nel secondo». Perché quella del museo non è stata l’unica scommessa vinta.

Il passaggio del testimone che ha segnato la rinascita del marchio è anche il riposizionamento in fascia alta: le stilografiche Aurora oggi costano fra i trecento e i mille euro, ma la casa torinese ne produce persino per le case reali, tempestate di gemme preziose, pezzi da duecento o trecentomila euro ciascuno. Non solo: «Mio padre non credeva neppure che fosse importante puntare sull’export, allora contava per appena il 3% del fatturato dell’azienda. Be’, oggi pesa per il 72%, siamo presenti in oltre 50 Paesi». D’altra parte, la scelta era tra chiudere o rinascere. «Buscandomi da qualcuno del pazzo e da altri del visionario, all’inizio dell’avventura ho dovuto fare il “giro delle sette chiese”». Ovvero l’alta borghesia sabauda: «Sa, io appartengo a un certo genere di famiglia»… Noblesse oblige.

Doveva essere mezz’ora, sono state quasi tre ore. E sarebbero state anche quattro o cinque, se Cesare Verona non fosse dovuto scappare col bagagliaio pieno di cataloghi e prototipi per andare a mettere a segno l’ennesima delle sue operazioni, dopo quelle con Versace, col Premio Strega, con Amarelli… «Per lei il caffè macchiato, vero»?