Forse c’è troppo ottimismo tra gli economisti su questa improvvisa decisione del governo di Pechino di aprire le frontiere, di archiviare tre anni di feroce lockdown, di abbassare la guardia sanitaria mentre milioni di cinesi, a metà gennaio, hanno preso treni, aerei, automobili per andare a festeggiare in famiglia, cioè nelle province più lontane di quell’immenso Paese, il Capodanno lunare e questo vorrà dire milioni di contagi (gli esperti parlano già di tre ondate da qui alla primavera) visto che i vaccini di qui sono assai meno efficaci di quelli occidentali (ma l’Oms di mister Debrejesus, l’uomo che si inchinava davanti a Xi Jingping – ricordate la foto? – non ha mai detto una parola) e il sistema ospedaliero non è in grado di reggere la pressione. 

Troppo ottimismo. C’è già chi comincia a scrivere che la Cina crescerà del 10 (dieci!?) per cento nel 2024 tornando a essere il Paese-chiave della nuova globalizzazione (la vecchia, iniziata nel 2001 con l’ingresso di Pechino nel Wto, si è chiusa nel 2020 con il Covid esploso, non si sa ancora come, tra le bancarelle del mercato di Wuhan). Troppo ottimismo. E non per ragioni sanitarie (anche se c’è da sperare che la fine della segregazione di massa, in questo tourbillon tra Capodanno lunare e viaggi all’estero, chi se li può permettere, non produca altre varianti del virus). 

Troppo ottimismo per ragioni economiche. Perché il regime comunista, quasi contemporaneamente alle aperture, fatte soprattutto per lanciare un segnale all’Occidente perché, sull’onda del neo-protezionismo americano, non abbandoni le fabbriche del Guandong (valga per tutti l’esempio della Foxcomm che produce gli I-phone di Apple), e sposti altrove le produzioni (si chiama friend-shoring, delocalizzare le fabbriche tra i Paesi amici); il regime di Pechino, dicevamo, resta ferocemente statalista, centralista, con una presa totale (totalitaria) sulla società a cominciare proprio dall’economia. 

Dice qualcosa il brutale allontanamento del miliardario Jack Ma, il Bill Gates cinese, dalle sue creature – da Alibaba ad Alipay – fino al punto da costringerlo a cedere il controllo della sua holding Ant Group a “entità finanziarie” vicine al partito? Bisogna essere chiari su questo punto: la struttura politica e istituzionale della Cina è tale e quale quella della vecchia Unione sovietica, la sua Costituzione è ricalcata su quella dell’Urss del 1949 e il potere assoluto conferito al leader Xi Jinping al XX congresso del partito comunista dell’ottobre scorso con le sconvolgenti immagini dell’allontanamento dell’ex presidente Hu Jintao (che fine ha fatto? Non se n’è saputo più nulla), sono la prova che il totalitarismo cinese resiste a qualsiasi presunta liberalizzazione economica. Di più: la liberalizzazione economica, iniziata negli anni ’90 e culminata nel 2004 con il riconoscimento giuridico della proprietà privata in Costituzione, è stata solo lo strumento per assicurare la straordinaria crescita avviata negli anni ’70 dopo la morte di Mao. 

In altre parole, come avverte Chenggang Xu, fine studioso del modello economico cinese alla Brunel Business School di Uxbridge in Gran Bretagna, in quei decenni successivi alla morte di Mao, il partito comunista capì che l’unico modo per far sopravvivere il regime era puntare sulla crescita economica. Libertà di fare affari (“Compagni, arricchitevi” per usare la famosa espressione di Bucharin del 1925 dopo il fallimento delle prime collettivizzazioni leniniste) in cambio di una totale adesione ideologica al partito e al potere dei suoi dirigenti. In questo scambio libertà economica-sottomissione al partito un ruolo deleterio, vorrei dire funesto, l’hanno avuto le nomenclature locali del Partito-Stato con i loro apparati burocratici, i quali hanno avuto la formidabile idea di finanziare la crescita a tutta velocità (il Pil a due cifre che faceva strabuzzare gli occhi agli economisti occidentali) agendo sulla leva del debito (pubblico) e dello sviluppo immobiliare. 

Alla fine, la bolla immobiliare, creata artificialmente, è esplosa con il fallimento di colossi para-pubblici come il gruppo Evergrande, controllato da un miliardario, il compagno Xu Jiayin, fedele al regime, e dalle amministrazioni locali del Guandong. Mentre il monopolio di Stato (e quindi del partito) sul sistema bancario ha destabilizzato i mercati finanziari (e qui il pensiero corre a Jack Ma, citato prima) e ha spinto le amministrazioni locali a indebitarsi dando in garanzia il patrimonio immobiliare in una catena perversa e senza fine (per questo si calcola che il peso del debito sul Pil abbia superato il 300%). 

Per anni il sistema ha retto grazie alle esportazioni e al decentramento produttivo da parte dell’Occidente. Dopo il Covid tutto questo non ha funzionato più e il partito si è trovato davanti alla necessità di cambiare strategia e di riaffermare la sua forza e la sua centralità anche a costo di ridurre i (pochi) margini di libertà economica concessi alla società negli anni di Deng-Xiaoping e della prima globalizzazione (ma quella stagione s’è chiusa con il massacro degli studenti in piazza Tienanmen, vale la pena ricordare). 

Ora si riaprono le frontiere per far sciamare i cinesi reclusi nei Covid hotel per tre anni, ma l’orologio della storia è stato rimesso all’indietro e il modello è tornato ad essere quello autocratico e autoritario della Russia di Putin (con cui Xi Jinping va d’accordo). 

Negli anni ’50 uno degli slogan più ripetuti dalla nomenclatura cinese era “Il presente dell’Unione sovietica è il nostro futuro”. Il futuro è arrivato ma ai cinesi, soprattutto ai giovani, non piace affatto.  Pechino, dice ancora il nostro ricercatore cinese, Chenggang Xu, della Brunel business school inglese, non si rende conto che il crollo della Russia potrebbe portare con sé il crollo della Cina. Troppo ottimista anche lui?

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Giuseppe Corsentino è un giornalista di un’altra era. Quando le redazioni dei giornali erano “officine” in cui si lavorava con l’informazione e la cultura e per scrivere un’inchiesta non si copiava da Wikipedia ma si trottava sul campo. Ha cominciato a L’Ora di Palermo quando il quotidiano diretto da Vittorio Nisticò era una leggenda (e non solo per le sue battaglie antimafia). Poi al Corriere d’Informazione e a La Notte, mitici quotidiani del pomeriggio. Quindi a Panorama dove ha applicato la cronaca all’economia; a ItaliaOggi (di cui è stato l’ultimo direttore), al Giornale di Bergamo, a Economy (quando la testata era ancora nella scuderia mondadoriana) dove ha applicato le regole del giornalismo al marketing editoriale. Da ultimo al Gambero Rosso, dove ha inventato il primo (e unico) quotidiano on-line dedicato alla “wine economy”, Tre Bicchieri distribuito ogni giorno a migliaia di operatori del settore. Ha chiuso la carriera a Parigi come corrispondente di ItaliaOggi e come blogger del sito Huffington Post. Ora è a Milano, legge e scrive per noi.