Ci sono 78 miliardi di ragioni per non smarrirsi lungo la Via della seta: tante quanto l’ammontare degli scambi commerciali tra Italia e Cina. Comprensibile quindi il funambolismo diplomatico del governo Meloni che ammicca a destra (agli Usa) e a manca (alla Cina) nel (vano) tentativo di non scontentare nessuno. In gioco ci sono i nuovi assetti geoeconomici, che vedono i Brics (Cina, Russia, India, Brasile, Sud Africa) allargarsi talmente tanto (nel 2024 si aggregheranno Iran, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi, Etiopia, Argentina, senza contare la quarantina di nazioni che hanno espresso interesse ad entrare nel “club”), da rappresentare già il 42% della popolazione mondiale e il 36% del Pil globale.
Entro dicembre il governo italiano dovrà notificare alla Cina il proprio recesso, altrimenti la Belt and Road Initiative proseguirà il suo percorso. Il ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, che ha co-presieduto insieme al suo omologo Wang Yi l’undicesima sessione plenaria – la prima dal 2020, del Comitato intergovernativo Italia-Cina, ha già messo le mani avanti spiegando che «la Via della Seta non ha portato i risultati che ci attendevamo. L’export dell’Italia verso la Cina nel 2022 è stato pari a 16 miliardi e mezzo di euro rispetto ai 23 miliardi della Francia e ai 107 miliardi della Germania». Come a dire: «Ma come? Francia e Germania, che nel 2019 non hanno aderito al progetto cinese, hanno ottenuto più vantaggi dell’Italia, che sotto il governo Conte si è precipitata a siglare con la Cina ben 19 intese istituzionali e 10 accordi commerciali». Anche se, a dirla tutta, in questo ultimo lustro l’interscambio tra Italia e Cina è aumentato del 42%. Mica noccioline.
I soldi non sono tutto (anche se sono molto) e gli equilibri geopolitici sono altrettanto importanti: fino a prova contraria l’Italia è un Paese Nato, che è sì un’alleanza militare, ma insomma, che gli Usa storcano il naso quando un alleato si fidanza con un nemico, si può ben capire. Da qui il “rimaniamo amici” proposto dal governo Meloni: “via dalla seta”, però sigliamo un accordo commerciale. Non si tratta di cerchiobottismo: «L’intenzione politica è sincera, ma l’implementazione delle dinamiche governative è complicata sui modi e sui tempi», spiega a Economy Alexander Alden, senior fellow dell’Atlantic Council: è un ufficiale al dipartimento di Stato, al consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca e al Pentagono. Sull’incontro tra Giorgia Meloni e Xi Jingping non ha alcun dubbio: «Ammesso che avvenga, non potrà essere prima della scadenza dell’autorinnovo o dall’uscita formale dal memorandum, e dunque non avverrà – se avverà, ndr – prima del 2024, non sarebbe pensabile l’umiliazione del leader cinese a casa propria sulla Belt and Road Initiative». Xi Jinping l’aveva invitata nel 2022, al G20 di Bali, ma poi ci sono stati i vari annunci del dietrofront, le trasferte negli Stati Uniti, l’esercizio del “golden power” su Pirelli. Un pessimo segnale a un Paese che in Italia aveva messo un piede anche in Autostrade per l’Italia (ingresso di Silk Road Fund nel 2017), Candy (ingresso di Quingdao Haier nel 2018), Ferretti (ingresso di Weichai nel 2012), Nerviano Medical Center (ingresso di Hefei Sar V-Capital nel 2018), Eni East Africa (ingresso di China national corporation nel 2013) e Cdp Reti (ingresso di State Grid Corporation of China nel 2014). Secondo Kpmg, dal 2010 al 2022 la Cina ha fatto shopping (si dice “M&A”) per 24,9 miliardi di euro in 147 operazioni nei comparti retail e beni di consumo (il 44% delle operazioni), industria (33%), infrastrutture (12%), finanza (6%) e telecomunicazioni (3%). E, stando al bilancio di Simest, ci sono ben 33 partecipate in Cina e a Hong Kong, inclusa la quotata Eurogroup.
«Nonostante un percorso diplomatico ben pianificato, il governo italiano si trova a dover fare una scelta ufficiale con alcuni passaggi che mancano (incontro con Xi Jinping) e con tempi che stringono (summit a Pechino per il decimo anniversario della via della Seta)», sottolinea Alden. «D’altra parte la Via della della seta è una scelta del primo governo Conte, un errore di posizionamento dell’Italia nello scacchiere geopolitico». Peccato che, facendosi i conti in tasca, il governo Meloni abbia capito che un conto sono le esigenze politiche, un altro quelle commerciali: «proprio l’importanza del mercato cinese ha indotto l’Italia a proporre la riformulazione della relazione fra i due Paesi, sottolineando che la marcia indietro non è stata innescata per inimicizia, ma per manifesta mancanza di benefici». Come contropartita, il governo Meloni ha messo sul piatto la stipula di accordi commerciali. «Questa è la retorica politica», commenta Alden, «ma poi la pianificazione dev’essere certosina: dopo il colloquio con Biden alla Casa Bianca di luglio, Meloni ha ribadito la volontà di coinvolgere il Parlamento con un voto che metta anche le opposizioni di fronte alle loro responsabilità». Voto che però, nel momento in cui scriviamo, non figura in calendario e che nelle parole di Tajani, a margine dei lavori dell’assemblea Onu del 20 settembre, era già diventato «una opinione del Parlamento, che è giusto ci sia quando si parla di accordi così importanti, dove mi pare ci sia una maggioranza favorevole al ritiro, però valuteremo». Insomma, si fa melina. Eppure la volontà è chiara. Va solo formalizzata la decisione. Perché informalmente Giorgia Meloni lo ha già fatto al G20 indiano, nel colloquio con il primo ministro di Pechino, Li Qiang, rassicurandolo che le relazioni proseguiranno senza condizionamenti esterni (cioè statunitensi). «Si spera – ha fatto sapere il primo ministro cinese – che l’Italia fornisca un ambiente imprenditoriale equo, giusto e non discriminatorio affinché le aziende cinesi possano investire e svilupparsi in Italia. La Cina continuerà ad espandere l’accesso al mercato per creare maggiori opportunità per i prodotti di qualità di entrare nel mercato»… sottolineando l’importanza delle buone relazioni per la «sicurezza e stabilità» delle catene di approvvigionamento. «Eppure dicembre è vicino e già il modo in cui è stato strutturato il memorandum dimostra l’irresponsabilità di quegli italiani che l’hanno scritto e negoziato», commenta Alden «perché l’autorinnovo facilita l’interesse cinese e diminuisce il potere negoziale dell’Italia perché non offre l’opportunità di rinegoziare periodicamente».
E gli Usa? Ufficialmente nessuna interferenza. Ma non si può non notare che, a margine della visita di Meloni a Washington, segnala Alden, la Casa Bianca ha diffuso una dichiarazione nella quale, riaffermando “l’incrollabile alleanza, il partenariato strategico e la profonda amicizia tra gli Stati Uniti e l’Italia” si legge che “Gli Stati Uniti e l’Italia si impegnano inoltre a rafforzare le consultazioni bilaterali e multilaterali sulle opportunità e le sfide poste dalla Repubblica Popolare Cinese”, sottolineando che “Il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Italia, pari a 117 miliardi di dollari nel 2022 e in costante crescita, è un pilastro di questa partnership in espansione”. Perché ci saranno anche 34 miliardi di ragioni per non smarrirsi lungo la Via della seta. Ma ce ne sono 117 per non dimenticarsi che, ci piaccia o meno, siamo ancora occidentali.