La Borsa di questi settimane è stata la cartina tornasole dello stato d’animo dell’economia dall’avvio della crisi geopolitica. Le società quotate esposte commercialmente sulla Russia sono penalizzate, ma non solo loro. Pensavamo di essere finalmente fuori dalla grande crisi pandemica, di aver incontrato e gestito il nostro cigno nero, mostrando grande resilienza. Le aziende avevano ripreso a lavorare a ritmi quasi pre covid, i dati Istat ci rincuoravano dandoci previsioni ottimistiche con il segno più, ma la invasione della Russia in Ucraina ha nuovamente rimesso tutto in discussione.

A soffrirne maggiormente sono sicuramente le attività energivore che si ritrovano ora a dover fronteggiare la incertezza dei rincari dell’energia e il rischio del loro approvvigionamento. La Borsa elettrica è ai massimi storici: il prezzo pagato alle società elettriche, come scrive il Sole 24ORE, è arrivato a un primato di 688,58 euro per mille chilowattora. Se pensiamo che nel 2021 era a 125 euro per mille chilowattora, ci rendiamo conto del problema. 

Non solo: iniziano le difficoltà per l’approvvigionamento delle materie prime come grano, carbone, fertilizzanti o la ghisa. Quest’ultima arriva per il 20% dalla Russia che insieme a Kiev fanno il 53% dell’export. L’Italia è alla ricerca di oltre cinque milioni di tonnellate di forniture. Eppure, nel 2021 nonostante la pandemia, il nostro Paese aveva chiuso 12 mesi di grande crescita; nel settore del private equity e dell’M&A, per esempio, secondo i dati di Kpmg, si erano registrate 1.165 operazioni per 97,8 miliardi di euro. Eravamo tornati su livelli di attività confacenti alla struttura della nostra economia. Il 2021 è stato caratterizzato da un clima di fiducia, vuoi per la consapevolezza che stavamo uscendo dalla crisi pandemica, vuoi per l’arrivo dei fondi dati dal Pnnr. In tale contesto, grande attenzione si era posta verso le operazioni di fusione e acquisizione da parte degli operatori, soprattutto dopo un 2020 caratterizzato da un pesante stato di incertezza. La liquidità presente sul mercato era solo in attesa di essere investita. 

Lato private capital è andata anche meglio: le operazioni registrate dell’Osservatorio Pem – Private equity Monitor sono state ben 387 nel 2021, un record mai raggiunto fino a oggi, segno evidente che il nostro tessuto imprenditoriale è sano e può crescere grazie alla spinta di capitali freschi che incontrano piani industriali ambiziosi e competenze per realizzarli. I primi due mesi del 2022 sono andati benissimo, in continuità col 2021. La mappatura del centro della Liuc Business School ha fotografato 52 investimenti tra gennaio e febbraio in Italia a fronte delle 45 operazioni nello stesso periodo del 2021. Un numero veramente significativo per il nostro mercato, indice di vivacità degli operatori domestici, ma anche di una continua attrazione di fondi internazionali. 

Eravamo pronti a un anno di grande crescita e ripartenza e ora ci troviamo nuovamente ai blocchi di partenza. Sarà interessante leggere i dati di marzo e aprile, per vedere se il settore del private equity, caratterizzato da una visione di medio periodo, sarà capace di continuare ad investire agli stessi ritmi. Gli operatori, del resto, si trovano oggi concentrati ad affiancare i manager delle imprese che hanno in portafoglio e a riformulare, dove necessario, i piani. Gli investitori di private equity in questo momento lavorano per mantenere efficienti le aziende in cui hanno investito. Le società che hanno rapporti con fornitori o clienti russi, hanno i contratti congelati e operano con orizzonti temporali incerti. Alcune voci di conto economico, a partire dal costo delle materie prime e della energia sono scarsamente prevedibili. La forza di avere un socio così aiuta molto. Difficile fare delle previsioni, non sarà veloce né semplice superare questa crisi, ma una nuova normalità è sempre possibile e sarà più facile per quelle aziende che si sono rafforzate nel capitale e che hanno aperto la loro compagina azionaria a questi partner finanziari, che non le lasceranno sole.