Il tema dello smart working (o lavoro agile che dir si voglia) riveste, oggi più che mai, un ruolo di fondamentale importanza nelle dinamiche della prestazione di lavoro.
Da molti ritenuto fonte di innovazione e slancio verso un nuovo modo di concepire l’attività lavorativa, senza talvolta mancare opinioni di segno diametralmente opposto, il lavoro agile rappresenta comunque una rivoluzione sociale e culturale con cui, volenti o nolenti, occorrerà fare i conti anche nel futuro.
Come a tutti noto, il lavoro agile è stato disciplinato nel nostro ordinamento solo con la Legge 22 maggio 2017, n. 81, e quindi poco più di tre anni fa, con il fine di regolare una modalità di lavoro orientata alla prestazione per risultato – e non tanto basata sul tempo passato alla scrivania – potenzialmente in grado di incrementare l’efficienza e la competitività delle aziende ed assicurare una condizione di maggiore benessere ai lavoratori.
Conosciuto ed applicato sino a pochi mesi fa solo da una minoranza di aziende (prevalentemente di stampo internazionale), è stata la recente emergenza sanitaria legata al Covid-19 a forzarne, laddove ovviamente possibile avendo a mente le mansioni da svolgersi, il ricorso, trasformando qualcosa visto dapprima solo come una necessaria misura di contenimento del virus in un imprescindibile strumento gestionale, e finanche di retention dei dipendenti, dagli ampi benefici sul fronte della conciliazione della sfera vita privata-lavoro e persino su quello ambientale.
Ma veniamo alla più recente attualità: il Governo, dopo aver invitato in più occasioni a massimizzare il ricorso al lavoro agile, è da ultimo intervenuto disponendo la protrazione dello stato di emergenza sino al 31 gennaio 2021.
Ebbene, ciò comporta, oltre a più ampi risvolti, la possibilità di dare corso allo smart working senza gli accordi individuali, previsti dalla legislazione ordinaria, almeno sino al 31 dicembre 2020; il ché è certamente importante visto e considerato che, a fronte dell’annunciata seconda ondata di contagi, è facile immaginare – a maggior ragione a fronte del recente DPCM del 18 ottobre 2020 – uno scenario ancor più improntato a gestire molteplici attività da remoto e quindi anche ad allargare la platea dei soggetti che rendono la prestazione in modalità di lavoro agile.
Cogliamo anche quindi l’occasione per chiarire quale sia l’attuale disciplina dell’istituto, visto il susseguirsi di svariati interventi normativi nel corso degli ultimi mesi.
Va dunque precisato che attualmente lo smart working non è un diritto spettante alla totalità dei lavoratori, nel senso che la legge ne prevede l’obbligo solo per determinate categorie: innanzitutto, quei lavoratori che, sulla base delle valutazioni dei medici competenti, risultano maggiormente esposti al rischio di contagio in ragione dell’età o della condizione di rischio derivante da immunosoppressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o comunque da co-morbilità che possono caratterizzare una situazione di maggior rischiosità accertata dal medico competente; in secondo luogo, i lavoratori che abbiano figli under 14 anni in quarantena (in quest’ultimo caso, peraltro, nell’ipotesi in cui la prestazione lavorativa non possa essere svolta in modalità agile, il genitore potrà astenersi dal lavoro per tutto o parte del periodo di quarantena del figlio fruendo, in luogo della retribuzione, di un’indennità pari al 50% della retribuzione stessa).
Inoltre, il lavoro agile deve essere accordato con priorità alle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità ed ai lavoratori con figli in condizione di disabilità ai sensi della Legge n. 104/92.
Se questa è la situazione dal punto di vista legislativo, resta comunque inteso che gli accordi sindacali a livello aziendale o comunque le policy aziendali possono ulteriormente disciplinare e regolare il ricorso al lavoro agile; il ché è accaduto, il più delle volte, ampliandone la platea dei fruitori.
Rimane però da capire quanto, una volta superata l’epidemia, lo smart working si affermerà effettivamente in Italia quale stabile modalità di esecuzione dell’attività lavorativa, come già sta avvenendo in altri Paesi del mondo.
Al di là della situazione contingente (che peraltro potrebbe essere purtroppo destinata a durare ancora piuttosto a lungo), i datori di lavoro saranno quindi chiamati, in uno ovviamente con i sindacati eventualmente presenti in azienda, a compiere attente valutazioni poiché se, da un lato, lo smart working offre molteplici vantaggi, dall’altro lato, vi è comunque il rischio di comprimere fortemente le relazioni interpersonali all’interno dell’azienda e tutti sappiamo bene quanto esse siano fonte di un valore imprescindibile nel mondo del lavoro sia per il benessere dei lavoratori che per la performance aziendale.