Il copyright va dato a Romano Prodi quando, ormai una quarantina d’anni fa, lanciò, criticamente, la definizione di “capitalismo bonsai” per definire il sistema pulviscolare delle nostre imprese. Che ancora oggi – dati Istat del 2020 – in 8 casi su 10 hanno meno di 9 dipendenti, mentre solo 3000, su 5 milioni circa di partite Iva, hanno più di 250 collaboratori.
Crescere è un imperativo categorico
È un tratto cromosomico della nostra antropologia imprenditoriale. Evidente la matrice: individualismo creativo e generativo. L’impresa è mia figlia e non la condividerò mai con nessuno, o cresco in proprio o non mi fondo, non mi alleo, non condivido.
Però nei nostri tempi difficili e convulsi tutto sta cambiando, la crisi caccia il lupo dal bosco, il cambio generazionale accelera, e c’è chi ha capito di poter e dover crescere. Per non finire tagliati fuori. Dover crescere nonostante tutto, nonostante la crisi pandemica, energetica, bellica… Crescere come imperativo categorico.
La coverstory del numero di Aprile di Economy è dedicata – anche attraverso la testimonianza di una giovane-grande azienda come The italian sea group – a chi nutre la passione e la responsabilità della crescita. Che significa mettersi in gioco e non sedersi mai. Certo: l’Italia non è un Paese per piccoli ambiziosi.
Non le è per la diffusa e radicata cultura anti-impresa nutrita dalle due opposte chiese nel secondo dopoguerra, quella cattolica e quella comunista (San Basilio Magno: “Il denaro è lo sterco del diavolo”, Pierre-Joseph Proudhon: “La proprietà è un furto”) e soprattutto non lo è per la burocrazia delirante, per la fiscalità soffocante e per la giustizia iniqua (mali non curati, con buona pace di Draghi e del Pnrr). Eppure ci sono piccoli ambiziosi talmente bravi da riuscire a diventare grandi. Ed è di questi imprenditori che è sano parlare, che ci piace parlare, e indicare a modello.