C’è relazione tra il sistema del welfare in Italia e la pandemia da Covid? La risposta, ovviamente, è sì. La conferma definitiva arriva dal rapporto Cerved pubblicato qualche settimana fa che fotografa l’evoluzione spesa e comportamenti delle famiglie per fasce di reddito e per struttura dei nuclei familiari. La prima evidenza è numerica: con l’avvento del Coronavirus si è passati dai 143,4 miliardi spesi nel 2018 ai 122,5 del 2020, con un calo del 14,6%, mentre lo scorso anno, complice la ripresa economica, si è avuta una crescita dell’11,4%. L’indagine del Cerved è anche una testimonianza di come sia cambiata la società nei due anni della pandemia. Le spese destinate alla salute sono calate a causa della riduzione del flusso delle prestazioni sanitarie, mentre l’assistenza agli anziani ha visto un autentico boom, così come il costo per l’istruzione dei figli e per la dotazione tecnologica necessaria alla Dad: il complessivo è passato dai 9,6 miliardi del 2017 ai 12,4 del 2021.
«Ci siamo resi conto nella seconda parte del 2020 – spiega a Economy Lucia Troilo, Responsabile Progetti di Welfare di Assiteca – che una volta “normalizzata” la pandemia e appreso che non avremmo superato il tutto in tempi rapidi, dopo il momento di incertezza che ha coinvolto aziende e famiglie, la macchina del welfare sarebbe ripartita. Servivano però interventi più mirati per supportare l’intero ecosistema in un momento così particolare. Così, abbiamo potuto notare alcuni fenomeni che si spera siano ormai definitivi: una riduzione del gap tra territori e un crescente interesse da parte delle aziende». Assiteca, d’altronde, gode di un osservatorio privilegiato. Non solo assiste le aziende in fase di definizione dei piani di welfare, ma svolge anche un ruolo di “collettore” grazie alla capillarità sul territorio. Quello che è ormai a tutti gli effetti un broker consulenziale rileva peculiarità del territorio e lacune e le integra con i progetti di welfare delle aziende private.
Purtroppo non si è avuta analoga comprensione dell’importanza del fenomeno da parte delle istituzioni. Nella Legge di Stabilità per il 2022, infatti, non è stato confermato il raddoppio della soglia di sgravio dei cosiddetti fringe benefits a 516 euro. «Ci aspettavamo che diventasse una misura strutturale – chiosa Troilo – anche perché secondo la Ragioneria di Stato il mancato gettito per l’Agenzia delle Entrate sarebbe stato di circa 12 milioni. Una cifra piccola che sarebbe stata recuperata con gli interessi grazie alla creazione di una micro economia che si rigenera con acquisti su cui grava l’Iva». Certo, esiste ancora la possibilità di intervenire, magari prorogando anche per quest’anno una misura che già aveva avuto effetto nel 2020 e nel 2021. È vero, il fringe benefit (letteralmente, beneficio marginale) non ha un impatto diretto dal punto di vista sociale. Ma l’estensione dello sgravio a 516 euro avrebbe permesso di portare a bordo piccole realtà che non hanno le risorse e le competenze per mettere a punto programmi di welfare articolati. Insomma, un’occasione persa.
Tra l’altro, è forse giunto il momento di rivedere in maniera più organica sgravi e accessibilità per quanto concerne i bisogni principali delle persone. «Da una parte vediamo nuovi modelli – conclude Troilo – come la digitalizzazione della sanità e la crescente richiesta di servizi di teleassistenza e consulto medico da remoto. Dall’altra notiamo che il tradizionale assistenzialismo statale rischia di essere un po’ superato. Nessuno vuole mettere in dubbio l’universalità delle cure, ma al momento in Italia ci sono oltre due milioni di famiglie che sostengono spese per parenti deboli per circa 13.000 euro all’anno. Situazioni sempre esistite, che ora emergono in modo preponderante. È giunto il momento di rivedere dei modelli che, palesemente, non sono più performanti. Alcune famiglie hanno necessità maggiori rispetto ad altre che hanno invece la fortuna di lavorare in aziende che utilizzano sistemi di welfare complementari. Siamo felici dei fondi stanziati nel Pnrr (complessivamente oltre 80 miliardi) per l’inclusione, ma la strada è ancora lunga».