di Andrea Granelli 

Giorni fa parlavo con un mio amico “commerciale” che mi condivideva una sua grande preoccupazione: il dover gradualmente sostituire incontri in prima persona con videocall. Oltre ai vincoli di agenda, i crescenti costi energetici (e quindi di trasporto), un clima sempre più bizzarro e imprevedibile e una crescente tensione sociale che si trasforma in sciopero o talvolta interruzione di importanti arterie di comunicazione, la sua preoccupazione nasceva dal fatto che sempre più frequentemente erano proprio i clienti a chiederlo, una delle conseguenze della grande sperimentazione digitale del lock-down. E lui in questa modalità non si sentiva suo agio e mi stava trasferendo questo disagio riaffermando il predominio dell’incontro fisico – soprattutto il primo incontro con un potenziale cliente – su quello digitale.

Credo, però, che il problema debba essere posto in modo diverso. Le due categorie – comunicazione digitale e comunicazione in presenza – sono troppo generali e articolate dall’essere riducibili a due polarità. E soprattutto il digitale non è migliore o peggiore della comunicazione tradizionale: è diverso. Qui sta il punto. Il mio test per vedere la fragilità della cultura digitale delle persone è notare quanto frequentemente adottano l’analogia tra un comportamento tradizionale e la sua versione digitale.

Il digitale non si limita ad automatizzare, facendo meglio (o peggio) ciò che si faceva prima. Il suo uso strategico ci consente, infatti, di ripensare, di trasformare anche in modo radicale l’attività stessa.

Prendiamo ad esempio un incontro professionale fra due persone. Quando è in presenza, vi sono due aspetti che lo possono limitare, rendendolo non così efficace e desiderabile. Innanzitutto la qualità dello scambio informativo. Le informazioni che posso raccogliere, dipende da come organizziamo il setting dell’incontro: o guardiamo in faccia la persona e interagiamo oppure teniamo gli occhi sostanzialmente rivolti a un block notes dove prendiamo appunti in modo sistematico su ciò che viene detto. Poiché normalmente viene scelta la prima modalità, di fatto si perdono molte informazioni che avvengono nell’interazione. In secondo luogo, la lettura dei comportamenti della controparte, soprattutto in relazione a ciò che dico. Le regole della prossemica, infatti, ci danno indicazioni molto chiare relativamente al tempo in cui possiamo guardare negli occhi. Gli esperti ci ricordano che la durata è grosso modo di 30 secondi. Se sono di meno, diamo il senso di essere distratti e poco interessati alla conversazione; se sono di più, ci trasformiamo in figure giudicanti che osservano e scrutano la persona che hanno davanti. In alcuni ambienti è addirittura vietato guardare una persona importante negli occhi: è infatti considerato un affronto. Vediamo allora cosa succede nello stesso tipo di conversazione, ma mediata da un video. Innanzitutto, vediamo la persona in modo nitido e spesso a distanza più ravvicinata che non in presenza. Durante il lockdown alcuni dirigenti mi hanno confessato che per la prima volta avevano visto, grazie alle riunioni video, i propri dipendenti in faccia, li avevano conosciuti …

Inoltre, grazie al fatto che la telecamera del nostro PC è disallineata rispetto alle nostre pupille, possiamo osservare – senza essere notati in questa azione – la persona davanti a noi e vedere con precisione come reagisce a ciò che diciamo, le cangianti espressioni del suo volto, la fronte che si raggrinza, le sopracciglia che si alterano e dunque il livello sia di attenzione che di gradimento rispetto a ciò che diciamo; e tutto ciò senza interferire con le regole sociali, nel senso che la controparte non si accorge di questa nostra osservazione perché avviene in modo naturale – o forse sarebbe meglio dire digitale.

In secondo luogo, chi ha agilità nell’uso delle tastiere, può prendere appunti su quanto detto mantenendo il contatto degli occhi. Io, per esempio, sono molto veloce a battere e non devo guardare la tastiera; riesco quindi a scrivere ciò che la persona dice (spesso sintetizzando mentre scrivo) continuando l’interazione e spesso riproponendo quando detto puntualmente per testimoniare la mia attenzione e comprensione dei punti essenziali del dialogo. Così facendo mantengo un’interazione dialogante senza però perdere nessuna informazione scambiata.

Pertanto l’incontro in digitale, dal punto di vista funzionale e di scambio informativo, risulta molto più efficace rispetto a quello in presenza. Se poi, come naturale, vogliamo rafforzare la relazione con la persona incontrata in digitale, nulla ci vieta di organizzare un secondo incontro, questa volta in presenza, ma non in ufficio separati da una scrivania, ma piuttosto in un bel ristorante o in un ambiente più accogliente, dove l’incontro diventa a questo punto completamente centrato sulla relazione.