GIUSEPPE CONTE XI JINPING PRESIDENTE REPUBBLICA CINESE

Al tempo, era voluto venire Xi Jinping in persona. Primavera del 2019. Il lìder maximo del Partito Comunista Cinese sbarca a Roma, con una nutrita delegazione al seguito, per mettere nero su bianco l’alleanza che avrebbe dovuto riportare in vita e dare nuova centralità alla “Via della Seta“, la mitica strada lunga circa 8 mila km, resa immortale dai racconti di Marco Polo, che fin dai tempi dei romani congiunge il Mediterraneo alla Cina favorendo scambi commerciali e culturali.

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Cos’è l’Accordo Via della Seta Italia-Cina a firma Di Maio

Fuori dalle suggestioni storiche, la solenne visita nel nostro Paese del Presidente della Repubblica Popolare Cinese altro non era che l’enfatico suggello alla sigla di un memorandum d’intesa sulla “Belt and Road Initiative” (BRI) – conosciuta ai più come la Via della Seta – un accordo finalizzato a sviluppare nuove rotte commerciali tra Cina, Europa e Africa e favorire investimenti su infrastrutture.

Dall’altra parte del tavolo, all’epoca, c’era un governo, il primo presieduto da Giuseppe Conte, con una maggioranza 5Stelle-leghista che, in politica estera, si mostrava alquanto sensibile alle sirene cinesi (e infatti ad apporre la firma sul memorandum fu, non a caso, il buon Giggino Di Maio, allora vicepresidente grillino di quell’esecutivo).

Quali sono gli obiettivi della Belt and Road initiative

Trasporti, energia, industria siderurgica, credito, cantieri navali, meccanica, farmaceutica, tessile, moda e turismo, nel memorandum BRI c’era di tutto e di più: 29 accordi e 10 aziende, tra cui Cassa Depositi e Prestiti, Sace-Simest, Unicredit e Intesa Sanpaolo, coinvolte in un patto bilaterale che l’Italia aveva voluto firmare prima (e sotto lo sguardo diffidente) di tutti gli altri Paesi del G7 che infatti si sono guardati bene dal seguirla.

“Molti dei progetti erano già in essere anche prima della formalizzazione dell’accordo” disse giustamente qualcuno, liquidando la BRI come un mero gesto diplomatico con forte valenza politica, una sorta di atto di forza voluto da Xi Jinping per confermare che nel nuovo assetto geopolitico globale la Cina si candidava ufficialmente a egemonizzare l’economia sostituendo, di fatto, gli USA come Paese-guida del mondo.

Che fine ha fatto quella nuova Via della Seta

Un’interpretazione che ha un fondo di verità non irrilevante. Tanto è vero che i governi che, dal 2019 ad oggi, sono succeduti al discusso esecutivo giallo-verde, hanno sterzato dalla Via della Seta spostandosi gradualmente – dal Conte-bis con il Partito Democratico in maggioranza a quello di “Unità nazionalepresieduto dall’atlantista di ferro Mario Draghi – fino a mettere la freccia (vedi Governo Meloni) per uscire definitivamente dalla Belt and Road initiative.

“Un errore” l’aveva bollata un anno fa Giorgia Meloni in campagna elettorale. “Un atto improvvisato e scellerato” ha rincarato la dose più di recente il suo Ministro alla Difesa Guido Crosetto, dicendo chiaro e tondo che sarà improbabile il rinnovo di quel memorandum con la Cina nel 2024.

Bilancia commerciale Italia-Cina oggi

Al di là dei retroscena politici (si sa che la premier ha da tempo sposato la causa euro-atlantica “senza se e senza ma”, ma non senza polemiche da terzi, viste le sue passate critiche alla politica estera a stelle e strisce), di certo c’è che sulla tanto strombazzata “nuova” Via della Seta di affari, in quasi 5 anni, se ne sono visti pochini.

La bilancia commerciale, per esempio, all’Italia risponde sempre pollice verso: gli italiani importano dalla Cina più di quanto esportano, su questo non ci piove. E secondo i dati dell’Osservatorio Economico della Farnesina, le esportazioni italiane in Cina sono passate da 12,9 miliardi a 16,4 miliardi di euro tra il 2019 e il 2022. In compenso però, in questi anni, le importazioni cinesi in Italia sono aumentate da 31,6 a 57,5 miliardi.

E la musica nel 2023 non è cambiata: nel primo trimestre di quest’anno l’export italiano verso Pechino è fermo a 9,7 miliardi mentre sulla rotta inversa le transazioni hanno già superato il valore di 19 miliardi di euro. A rendere il tutto ancora più beffardo è che in UK e Germania, Paesi che non hanno aderito alla BRI, gli investimenti cinesi in questi anni sono nettamente superiori a quelli in Italia: 51,9 e 24,8 miliardi contro i 16 da noi.

Tajani in visita a Pechino poche settimane fa

Ce n’è abbastanza insomma per convincere il governo Meloni a chiudere le porte. E annunciare che entro dicembre sarà comunicata la scelta definitiva sull’uscita dell’Italia dal memorandum che, in caso contrario – pur senza avere carattere giuridicamente vincolante – si rinnoverebbe automaticamente.

Ovviamente sulla scelta pesa la volontà di voler mantenere comunque buone relazioni diplomatiche e commerciali con la Repubblica Popolare Cinese, sebbene la premier finora abbia fatto di tutto per allinearsi ai diktat della NATO più o meno in tutte le mosse operate sullo scacchiere internazionale e sia tuttora l’unica leader dell’Occidente a non aver ancora fatto visita a Pechino. In compenso, qualche settimana fa ci ha mandato il vicepremier Antonio Tajani e i rumors dicono per contrattare una separazione consensuale e indolore.

BRI-exit? Cosa dicono le imprese italiane

Ma le imprese italiane con interessi verso la Grande Muraglia? Come si stanno preparando ad un’eventuale “BRIexit“? A sentire Marzio Morgante, managing partner di ATA, Asian Tax Advisory, una boutique di consulenza legale e tributaria fondata nel 2018 e con sede a Hong Kong e Singapore, le aziende non si stanno stracciando le vesti, anzi.

«In vista dell’uscita dalla Via della Seta, le imprese italiane stanno esplorando nuove opportunità di investimento in Asia e nel sud-est asiatico – spiega Morgante, commercialista con un passato importante nello studio Chiomenti ma da anni ormai dedicato al mercato di Hong Kong – la diversificazione non riguarda solo la moda ma anche l’arredamento, il manifatturiero, il farmaceutico, l’elettronica e i servizi».

Quali sono le aree d’investimento alternative alla Cina

E su quali potrebbero essere le aree d’investimento alternative al Dragone, Morgante non ha dubbi: sono i Paesi (Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia, Vietnam) che fanno parte dell’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, e che nei prossimi anni sono destinati ad assumere un ruolo sempre più rilevante nei piani di espansione delle aziende votate all’expo.

Ovviamente, ogni territorio ha una sua specifica industria di riferimento: «Se parliamo di opportunità» spiega il managing partner dello studio ATA, «Tailandia per l’automotive e il settore chimico, Vietnam e Indonesia per arredamento e manifatturiero, sono realtà sempre più considerate dalle nostre imprese, sia quali paesi in cui delocalizzare la produzione, sia come mercati finali. A questi si aggiungono, in generale nell’area, il settore farmaceutico e le tecnologie legate alla medicina, nonché IT, aerospaziale, energie rinnovabili e il settore marittimo, particolarmente attivi».

«In tutti questi contesti», aggiunge, «Singapore e Hong Kong rappresentano gli hub di riferimento ove posizionare la sub-holding di controllo dei mercati asiatici, ovvero la prima presenza diretta in Asia. Si tratta di giurisdizioni i cui ordinamenti, modellati sulla common law inglese, consentono una gestione efficiente, ma comunque sicura, degli investimenti diretti».

Uscire dalla Via della Seta è un problema diplomatico

Secondo Morgante, l’uscita dalla BRI e la diversificazione non dovrebbero avere grandi ripercussioni nemmeno dal punto di vista fiscale e gestionale: «Ci sono alcune sfide che le imprese italiane potrebbero affrontare mentre cercano di espandersi o diversificare i loro investimenti in Asia», fa notare, «l’importante sarà organizzare una struttura che soddisfi i requisiti di residenza fiscale nel paese estero, in ottemperanza con la disciplina CFC, nonché una corretta politica di transfer pricing per i rapporti intercompany».

La chiusura della Via della Seta, in sostanza, non sembra spaventare o influenzare più di tanto le strategie di espansione delle nostre aziende in Asia. A conferma che l’exit o meno dalla BRI è più un problema politico-diplomatico che economico-commerciale. E questo, a Palazzo Chigi, evidentemente lo sanno bene.