Urge vaccino per la “sindrome Italia” che predica bene ma non razzola per niente

Per molte ragioni, prima fra tutte per come lo conosco, sono sicuro che Vittorio Colao ha svolto al meglio il compito che gli era stato affidato da Palazzo Chigi su suggerimento del Quirinale. Ma di fronte al sostanziale disinteresse, alla distrazione con cui il contributo della sua commissione è stato accolto, la considerazione che s’impone è una sola: che siamo di fronte alla solita “sindrome Italia”. Di che si tratta? Nel caso di Colao, come già ad esempio alcuni anni fa nel caso di Carlo Cottarelli, il sistema Paese ha saputo individuare due fuoriclasse e trovare per entrambi la collocazione ottimale per affrontare al meglio un’emergenza: li abbiamo ingaggiati e gli abbiamo affidato  compiti per i quali erano particolarmente adatti. Poi però – a livello politico e amministrativo – non glieli abbiamo lasciati svolgere, o abbiamo ignorato il frutto del loro lavoro. Non appena questi “papi stranieri” escono dal cono di luce del presidente della Repubblica, cadono in disgrazia. È questa la “sindrome Italia”: disporre di grandissime competenze, riuscire a cooptarle, e poi sperperarne i preziosi contributi. E non mi riferisco soltanto all’ambito gestionale o manageriale. Mi riferisco, in generale, alle figure degli esperti, dei grandi esperti, di qualunque materia. Al loro utilizzo mediatico e propagandistico da parte del potere politico; al loro sistematico misconoscimento nella fase delle scelte operative. Una riprova recentissima l’abbiamo avuta con i virologi. È stato evidente a tutti che molti problemi, o almeno molti ritardi e incertezze, sono nati proprio dalle divergenze tra il comitato tecnico-scientifico e i politici chiamati ad accoglierne e implementarne le indicazioni. Se un governo domanda a un virologo qual è la cosa giusta da fare, il virologo gli consegna un elenco di priorità. Poi quel governo esamina l’elenco e rileva che dando seguito ad alcune di quelle priorità rischia di perdere voti, e così arresta qualsiasi processo! Subentrano ragionamenti e interessi di quadrante, di collegio, di corrente. Che io ricordi, epoche migliori non ce ne sono state molte. Certo, abbiamo anche avuto ministri che erano anche grandi tecnici. L’Italia fiscale, per esempio, è stata fatta da Vanoni: fu lui ad inventare la tassazione progressiva, sistema poi stravolto, ma innovativo. Però sono state eccezioni alla regola. È’ un male oscuro, occorrerebbe un vaccino. La task-force di Colao ha lavorato molto e molto bene, mettendo insieme una sorta di brogliaccio di provvedimenti, un’enciclopedia di buone intenzioni ma insieme un elenco serio di priorità. Elenco che però non condurrà a nulla, probabilmente, perché se il governo Conte portasse in Parlamento la maggior parte di quei provvedimenti se li vedrebbe massacrare di obiezioni, emendamenti e impedimenti, in buona parte su iniziativa di quegli stessi partiti che a parole dovrebbero sostenere il governo.

Chiediamo agli esperti come risolvere i problemi ma poi non seguiamo mai i loro preziosi consigli

La domanda sostanziale, ancorché non detta, su tutte le proposte, sarebbe alla fin fine una sola: cosa abbiamo da guadagnare e cosa da perdere? Noi, come partito. Ora il passaggio finale verso l’arretratezza che rischiamo di compiere è questo: perdere, e a questo punto definitivamente, il treno della digitalizzazione. In gioco c’è ben più che il problema infrastrutturale della rete a banda ultralarga, già di per sé complesso ma forse avviato a soluzione logica. Molto più complesso è invece il tema dell’informatizzazione profonda della pubblica amministrazione. Se la pubblica amministrazione s’informatizza su livelli accettabili, o meglio ancora avanzati, apre un dialogo tutto nuovo con la società produttiva, inizia a parlarne la stessa lingua, ed un piccolo ma significativo esperimento miracolosamente riuscito è stato quello della fatturazione elettronica. Se invece, come purtroppo accade su troppi altri fronti, abbiamo un’amministrazione pubblica che in fatto di automazione è ferma a 20 anni fa, si ferma tutto. Infatti sono arretrati gli uffici pubblici, sono arretrate le banche, arretrate le utilities: tutto. Per non parlare di un altro problema ormai drammatico: la scuola. Arretrata rispetto alle esigenze del sistema, al confronto internazionale, a tutto. L’esperienza del Covid-19 ha spinto l’adozione del lavoro a distanza e della scuola a distanza. Il primo è stato vastamente adottato e promosso, ma non aiutato ed anche in qualche modo rinnegato, tanto che si pensa che molti lavoratori da casa non abbiano lavorato, ma piuttosto oziato. Per la scuola si è sostanzialmente lasciato tutto alla buona volontà di insegnanti e presidi, che spesso per occuparsi degli studenti hanno messo in piedi sistemi alquanto artigianali. Con risultati molto eterogenei sul territorio. Si profila un insegnamento misto, che richiederebbe grandissima preparazione per distinguere tra le materie telematizzabili e quelle necessariamente riservate alle docenze fisiche. Non si può procedere a casaccio, ma si dovrebbe ristabilire una forma di coordinamento centrale dell’insegnamento, colmando gli scompensi soprattutto attraverso il miglior ricorso all’informatica. Ma questo presuppone innanzitutto una chiara volontà politica, che non si vede, e poi la capacità di arrivare telematicamente ovunque con la stessa efficienza e non in modo asimmetrico causando guai ulteriori. Anche in questo caso, la parte più debole è sempre la parte amministrativa. Del resto, informatizzare ogni attività di gestione, con leggi e regole che cambiano a velocità impressionante, è un problema per tutti e per tutto.  E a sua volta l’amministrazione della giustizia è drammaticamente poco informatizzata, con gap di efficienza altrettanto drammatici.

La stagione degli aiuti europei che si profila davanti a noi è una grande opportunità per capovolgere questo trend e rilanciare il Paese. Il rischio esiziale, se non riusciremo a cogliere quest’opportunità, è di trovarci tra cinque anni ancora più distanti e meno competitivi rispetto ai partner europei e al mondo. Un passo ulteriore e definitivo verso l’impoverimento del Paese.