Una ripresa a trazione integrale
* Fonte Svimez - ** Fonte Srm, centro studi collegato al gruppo Intesa Sanpaolo - *** precisamente sono: 61 nell’abbigliamento moda, 42 nell’automotive, 25 nell’aerospazio

L’Italia cresce solo se cresce il Sud». Non l’ha detto Pino Aprile, autore di «Il male del Nord» e icona dei pasdaran sudisti, e nemmeno Roberto Napoletano, che da direttore del Quotidiano del Sud veste i panni dell’agguerrito difensore del Mezzogiorno, bensì Mario Draghi quand’era governatore della Banca d’Italia. E ora che lo stesso Draghi da presidente del Consiglio ha deciso di puntare tutto sulla crescita, anche a costo di prendersi il rischio enorme di riaprire il Paese a campagna di vaccinazione anti-Covid ancora agli inizi, si sta facendo strada la stessa consapevolezza: la crescita dell’Italia dipende da quella del Mezzogiorno, che quindi conviene a tutti, anche al Nord. Per dirla con il ministro per il Sud Mara Carfagna, autrice di un intervento per questa coverstory di Economy, «il capitolo Sud è il capitolo Italia». Non si tratta di un’enunciazione di principio, ma di un dato di fatto dimostrabile: l’economia italiana è ormai fatta di filiere produttive che corrono da sud a nord, rendendo i diversi territori del Paese sempre più interdipendenti. 

Vale quasi 190 miliardi di euro il pil del centro nord attivato dalla domanda proveniente dal mezzogiorno: il 14% del totale

«È ora di superare la contrapposizione Nord – Sud non solo per motivi di ricostruzione del sentimento nazionale, ma perché è conveniente» dice Luca Bianchi, direttore di Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, «dal nostro modello econometrico emerge chiaramente la fortissima correlazione tra la crescita del Sud e quella del Nord. Vale quasi 190 miliardi di euro il Pil del Centro Nord attivato dalla domanda proveniente dal Mezzogiorno, pari a circa il 14% del totale. Inoltre investire nel Sud conviene al Centro Nord: basti pensare che ogni euro di investimenti in opere pubbliche nel Mezzogiorno attiva circa 20 centesimi di domanda di beni e servizi delle aziende del Centro Nord». 

L’interconnessione dell’economia meridionale con quella del resto del Paese risulta evidente da diverse angolature. «Il Mezzogiorno è importatore netto dalle altre macroregioni per 58 miliardi di euro, e a sua volta ha un “export” verso le altre regioni del Centro Nord di circa 50,5 miliardi», osserva Massimo Deandreis, direttore di Srm, centro studi collegato al gruppo Intesa Sanpaolo, «specie in alcuni settori questo significa commercio di beni intermedi, utilizzati nel processo produttivo interno alle filiere. In particolare la produzione manifatturiera del Mezzogiorno destinata all’industria del Centro Nord pesa il 28,6% nel settore abbigliamento moda, il 30,9% nell’automotive, il 44% nell’aerospazio». 

Le risorse del Recovery devono andare al sud per effetto del maggiore moltiplicatore degli investimenti nel mezzogiorno

Proprio i legami nazionali delle filiere fanno sì che gli investimenti effettuati nel Sud abbiano un effetto importante sulla crescita del Centro Nord. «Bisogna investire di più nell’industria del Mezzogiorno perché ci sono ricadute dirette e positive anche sul resto dell’economia del Paese, pur variabili da settore a settore» sottolinea Deandreis, «in particolare 100 euro di investimenti al Sud nel settore abbigliamento moda attivano una domanda aggiuntiva nel Centro Nord di 61 euro. Nell’automotive questo valore è pari a 42 euro, mentre nell’aerospazio è di 25 euro». Il dibattito sull’opportunità di dare al Sud una quota del Recovery Fund superiore al 34%, cioè alla quota della popolazione italiana che vive nel Mezzogiorno, alla luce di questi dati assume un significato diverso. «Le risorse del Recovery devono andare al Sud in maniera superiore alla popolazione non solo per equità, ma per effetto del maggiore moltiplicatore degli investimenti che avvengono nel Mezzogiorno» rimarca Bianchi, «secondo il nostro modello, passando da una ripartizione del 34% al 50% non solo la crescita del Sud sale dall’8 al 12%, ma la crescita complessiva italiana aumenta dal 7.2 all’8.3%. Una migliore distribuzione dunque attiva domanda per il centronord e riattiva processi nel mezzogiorno, con un effetto complessivo maggiore». In questa prospettiva emerge anche l’infondatezza del luogo comune secondo il quale il Sud è una sorta di “deserto industriale”: come ha sottolineato il direttore di Srm, nel Mezzogiorno ci sono oltre 95mila imprese manifatturiere; se fosse uno Stato dell’Ue sarebbe all’ottavo posto tra i Paesi con maggiore presenza industriale. 

«Superare la contrapposizione Nord – Sud è conveniente» –  Luca Bianchi, direttore di Svimez

Secondo gli osservatori più pragmatici, al di là di quanti fondi saranno stanziati per il Mezzogiorno, il vero problema sarà riuscire a spenderli. Tra Recovery Fund, con la percentuale di risorse per il Sud che dovrebbe salire dal 34 al 40%, React-Eu, Fondo sviluppo e coesione e fondi strutturali, si stima che dovrebbero arrivare circa 20 miliardi all’anno. «Sono il doppio di quanto ricevuto fin qui» evidenzia il direttore di Svimez, «quindi anche l’investimento dovrebbe essere doppio: bene mettere i soldi, ma per riuscire a spenderli si deve anche rafforzare la capacità amministrativa». Un aiuto in tal senso arriva dalla stessa struttura del Recovery Plan, che prevede un’attenta selezione ex ante degli ambiti di investimento. «Si deve evitare la dispersione in mille rivoli tipica dei fondi strutturali» afferma Bianchi, «inoltre è fondamentale ridurre l’intermediazione regionale: serve un impianto fortemente centralizzato nella fase di programmazione, per poi coinvolgere le amministrazioni locali nella messa a terra dei progetti. I comuni, in particolare, già oggi sono il maggior soggetto di investimento: è fondamentale investire in nuovo personale». Un punto centrale è quello dei progetti che devono essere presentati dalle amministrazioni locali. «Mi preoccupa molto la capacità progettuale» insiste il direttore di Svimez, «la governance non può essere lasciata alle attuali strutture. L’esperienza insegna che se dalle amministrazioni del Sud non arriveranno i progetti, le risorse andranno a quelle più efficienti». 

Emerge dunque l’esigenza di un supporto alle amministrazioni locali da parte di strutture centrali in grado di standardizzare le procedure e restringere così gli ambiti di intervento. «Si deve prendere atto della debolezza delle Regioni, il sistema dev’essere profondamente diverso da quello utilizzato per la spesa delle risorse strutturali europee», incalza Bianchi: «secondo me bisognerebbe costruire delle unità di missione territoriali connesse con le strutture nazionali e specificamente dedicate all’attuazione del Recovery Fund, che supportino i Comuni. Non per niente l’unico periodo di riduzione del divario tra Nord e Sud è stato quello iniziale della Cassa del Mezzogiorno, quando era soprattutto una forte struttura tecnica fatta di ingegneri che supportavano le amministrazioni locali». 

Lo stesso ministro Carfagna, che ha ottenuto l’assunzione di 1.800 giovani nella PA meridionale, ha sottolineato che lo stesso superbonus al 110% secondo un’analisi storica è assorbibile al Sud solo per il 9%, citando proprio la debolezza amministrativa degli uffici tecnici dei Comuni come uno degli ostacoli da superare. L’esigenza di riuscire a spendere le risorse è legata alla stringente tempistica del Recovery Fund. «Il punto chiave è la celerità nell’esecuzione», osserva Deandreis: «i progetti devono essere completati entro il 2026: una sfida enorme per un Paese che ci mette anni per fare qualunque cosa. Il Pnrr deve essere dunque accompagnato da un set normativo che consenta celerità nell’esecuzione, altrimenti perderemo questi soldi, a differenza di quanto accade per i fondi strutturali, con i quali spesso si accumulano anni di ritardo che poi in qualche modo vengono riprogrammati sulle annualità successive».

«Il punto chiave è la celerità nell’esecuzione dei progetti» – Massimo Deandreis, direttore di Srm

Per utilizzare davvero le risorse in arrivo da Bruxelles è dunque necessario un rapido adeguamento della pubblica amministrazione meridionale. A spingere in questa direzione è proprio la consapevolezza sempre più diffusa dell’importanza di investire nel Mezzogiorno per far tornare a crescere in modo serio il Pil dell’intero Paese. Questa coscienza non è nuova, è una sorta di fenomeno carsico che in certi periodi affiora e in altri sparisce nel sottosuolo. «Credo che questa consapevolezza sia anche precedente al recente dibattito sul Recovery Plan», dice Claudio De Vincenti, presidente onorario di Merita (associazione Meridione Italia), ex ministro per il Sud del governo Gentiloni, «quando nella legislatura precedente facemmo i Patti per il Sud nell’ambito del Masterplan per il Mezzogiorno, questo messaggio era già stato messo al centro dell’agenda politica. Il che ci dice anche che questa consapevolezza deve crescere al di là del Recovery Fund: abbiamo bisogno che l’insieme della politica economica nazionale sia consapevole di questa centralità per l’Italia della ripresa del Mezzogiorno». Anche perché questa prospettiva dovrebbe essere applicata a tutti i capitoli di spesa. «Vale sia per le risorse del bilancio ordinario che per i fondi di coesione», precisa il presidente onorario di Merita: «sia quelli europei, cioè i fondi strutturali europei, sia nazionali, ovvero il fondo sviluppo e coesione. C’è una pluralità di strumenti che possiamo mettere in campo, tutti devono muoversi con questa logica». 

La consapevolezza dell’interdipendenza tra Nord e Sud è presente soprattutto tra chi l’economia la pratica sul campo. «Basta parlare con qualche imprenditore meridionale», nota De Vincenti, «o anche settentrionale: molti hanno fornitori al Sud, e essi stessi investono nel Mezzogiorno. Tra di loro il senso di questa integrazione economica è già molto forte». 

Se però dal mondo dell’impresa si passa a quello delle istituzioni, le cose cambiano. «Questa consapevolezza si si sta affermando, è però forse più presente nel mondo produttivo di quanto non lo sia ancora a livello di istituzioni», rileva il direttore di Srm, «perché chi lavora nelle imprese questa interdipendenza la vive quotidianamente. Prendiamo le Pmi subfornitrici di una media impresa nel Centro Nord, che a sua volta dovrà rispettare gli standard qualitativi imposti dalle grandi imprese con cui è collegata: le Pmi del Sud dovranno a loro volta rispettare quegli standard». 

Il mezzogiorno è un pezzo importante delle catene di subfornitura e quindi contribuisce all’industria del centro nord

Questa profonda interconnessione basata sulle filiere produttive fa sì che le esportazioni dell’economia meridionale siano sottovalutate dalle statistiche. «Uno degli argomenti che si utilizzano per dire che l’economia del Sud è debole è che non esporta, o esporta poco», sottolinea Deandreis: «questa è una mezza verità, perché molte aziende del Sud sono subfornitrici di aziende del Nord che esportano. Il Mezzogiorno è un pezzo importante delle catene di subfornitura, e quindi contribuisce in modo altrettanto importante all’industria del Centro Nord, ben oltre il valore meramente statistico del 13-14% rappresentato dal peso dell’Industria nel Sud». È lo stesso meccanismo per il quale le statistiche sottovalutano l’export italiano verso i Paesi extraeuropei: nell’automotive, per esempio, i componenti italiani vanno in Germania, ma molte auto tedesche vengono poi vendute in America o in Asia con tanto di freni, motori, cambi italiani.

«Come insegna keynes si cresce solamente tutti insieme» – Claudio Devincenti, presidente onorario di Merita

A proposito di export: un altro elemento esterno al Recovery Fund spinge in direzione della centralità del Mezzogiorno non solo per l’Italia, ma per l’intera Europa. «È una novità di tipo geostrategico», spiega il presidente onorario di Merita: «il Mediterraneo ha riacquistato una forte centralità negli scambi internazionali dopo il raddoppio del Canale di Suez. Un fatto che risente prima di tutto dello sviluppo delle economie asiatiche; ma anche, e soprattutto in futuro, del fatto che l’Africa ha un bisogno assoluto di crescere. Questo è qualcosa che l’Europa deve tenere ben presente. La Cina sta investendo fortemente in Africa, è ora che lo faccia anche l’Europa, che deve uscire da un attendismo che non va bene prima di tutto in termini di attenzione a un continente che ha tanti problemi e bisogno di sostegno, ma non va bene neanche per noi: come insegna Keynes si cresce solo tutti insieme, se l’Africa cresce questo ci aiuta». 

Il Mediterraneo è dunque sempre più in prospettiva uno snodo chiave delle nuove relazioni economiche internazionali. «Un’Europa che voglia giocare un ruolo di leadership nello sviluppo futuro, non lontano ma prossimo, dell’economia globale», insiste De Vincenti, «ha un interesse oggettivo a investire nel Mediterraneo. È una battaglia da fare, e l’esito non è assolutamente scontato, perché la tradizione di 70 anni e passa alle nostre spalle vede come centri della crescita da un lato l’Europa centro-occidentale, specie Francia e Germania, e dall’altra gli Stati Uniti: l’asse euro-atlantico era anche l’asse della crescita. Ma oggi la situazione sta cambiando davanti ai nostri occhi, il mondo è molto più articolato e dobbiamo saper cambiare il nostro punto di vista. Anche nel Recovery Plan i Paesi del sud Europa avranno il maggior contributo, grazie all’attenzione verso il tema della coesione: quindi c’è un’attenzione oggettiva ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. È un’occasione straordinaria per il nostro Mezzogiorno, che è la principale piattaforma logistico produttiva dell’Europa sul Mare Nostrum. Ma è una grande occasione per tutta l’Italia, che anche il Centro Nord ha l’interesse di cogliere: per sfruttarla, il Sud gioca un ruolo chiave».