C’era un tempo in cui l’oratorio e la parrocchia erano i luoghi da cui nascevano i futuri campioni del calcio, da Facchetti a Boninsegna, da Tardelli a Rivera. Oggi dalle parrocchie nascono chef stellati. Come il bresciano Augusto Valzelli, 29 anni, chef e proprietario de La Porta Antica di Brescia, fulminato sulla via di Damasco della cucina a 13 anni non dal Padreterno, ma da una volontaria che, in parrocchia, intratteneva i giovani facendo preparare loro ricette semplici. Bona tempora currunt… «Quello con Michelin fu invece un incontro particolare – racconta -; da pochi giorni ero subentrato ad Andrea Sarri come chef del Ristorante Agrodolce di Imperia, quando ricevemmo la visita di un ispettore Michelin. Avevo 22 anni, ero ancora acerbo e con me tutta la situazione del ristorante. Nonostante Michelin non tenga conto solo della qualità dei piatti, ma anche di fattori come il servizio di sala, l’accoglienza, la pulizia, gli spazi, facemmo colpo. Nel dicembre 2014 inaugurai la nuova gestione del Ristorante Agrodolce e a novembre 2015 diventai lo stellato più giovane d’Europa. Ho mantenuto la stella fino al 2017, quando ho scelto di “tornare a casa” e aprire il mio ristorante a Brescia». Una città flagellata dal Covid-19, con cui il locale di Valzelli ha fatto fatalmente i conti: «Il mio è un ristorante selezionato, prima del lockdown aveva nove tavoli per una ventina di coperti. Abbiamo riaperto il 22 maggio, con cautela, togliendo tre tavoli: uno per legge, per rispettare le distanze, gli altri perché ho voluto mettere più in sicurezza la clientela».

Meno coperti, ma ancora più voglia di mettersi in gioco: «Ciò che conta nell’ideazione di una ricetta e nella scelta degli ingredienti è l’intero processo creativo, il modo in cui si arriva a comporre un piatto – prosegue -. Io ho una regola, che chiamo la “regola del tre”. In cucina spesso si parte da due ingredienti da abbinare, che si completano e funzionano insieme; il terzo ingrediente è invece quello determinante, che può esaltare o rovinare del tutto il piatto creato con i primi due. Dal tre in su, il grado di difficoltà cresce sempre più. Ecco, io parto da un ingrediente protagonista, da un secondo che vi si abbina e poi passo al terzo che fa da trampolino per i successivi».

Una visione che fa da base a una cucina raffinata. Ma non chiamatelo maestro: «Non lo sono per niente. Il prossimo gennaio compirò 30 anni e da quando ho preso la stella Michelin mi sono migliorato; mi piace studiare le evoluzioni del mio mondo, dalla scoperta di nuovi e antichi ingredienti ai metodi di cottura, all’uso delle spezie. Continuo a imparare, scoprire e crescere ogni giorno, per cui maestro proprio no: sono sempre attivo e sul pezzo». Va bene, maestro no; si sente allora artigiano o artista? «Entrambi. Il primo fa un lavoro straordinario, perché elabora i prodotti con la sua manualità, ma senza il tocco in più rimane artigiano e non diventa artista: si ferma a un livello e a un’offerta di cui ormai il mercato è pieno. Ciò che differenzia gli chef al nostro livello è proprio quel qualcosa in più che mette un artista, il terzo, quarto, quinto ingrediente come dicevo prima». Un artigiano e un artista che, quando parla di sé, usa sia la parola cuoco, sia la parola chef. Crisi d’identità? «No – conclude -. Sono diventato cuoco nel 2009 quando mi sono diplomato a scuola, chef forse non lo sono nemmeno ora che ho un ristorante mio: lo chef ha un bagaglio culturale e di esperienza che gli consente di gestire una brigata, ecco perché non sono sicuro ancora di esserlo (ride). Aggiungo però un terzo livello, il mio, ossia lo chef imprenditore, titolare del ristorante; un livello al quale cambiano del tutto le coordinate del mestiere. L’importante, però è non dimenticarsi mai di quando si era cuoco».