Di lui dicono che potrebbe essere uno dei nuovi leader della sinistra da ricostruire, e non solo (anche se lui tutte le volte puntualizza: «non ho tessere di partito»). Qualcuno lo definisce “eretico”, altri “un marziano”. Quel che è certo è che Bentivogli Marco da Conegliano Veneto, 47 anni di cui più della metà passati nella Fim Cisl della quale dal 2014 è segretario nazionale, oltre che un sindacalista “moderno” – come non se ne vedevano da un pezzo in Italia – è una delle poche voci lucide, mai banali e soprattutto allergiche a quel consenso-facile, tanto in voga ai tempi dei social network, che si alzano nel variegato, frammentato e sfasatissimo mondo del lavoro che cambia.
Aveva poco più di 20 anni quando è entrato in Fim Cisl. Che il lavoro e i lavoratori in questi oltre 25 anni siano cambiati è facile dirlo, ma il sindacato? È stato capace di cambiare davvero?
Il sindacato è un parola sola ma che racchiude tante organizzazioni e tanti sindacalisti, io sono fiero di avere iniziato nel sindacato giusto, la Fim Cisl, dove la libertà di sperimentare non viene negata a nessuno e soprattutto è forte la tensione ideale e operativa a non sentirsi né “arrivati” e neanche “adeguati a prescindere”, soprattutto mentre tutto cambia. A volte essere “eretici” è il minimo sindacale, proprio per tenere il sindacato stesso “dentro la storia”. Rischiamo costantemente l’autoreferenzialità e la deriva burocratica o reazionaria. Non possiamo consentirlo ad una cosa importante per la democrazia come l’organizzazione dei lavoratori. Il loro potere organizzato deve restare un veicolo di protagonismo importante per le persone.
Ieri girava per l’Italia per capire le diverse condizioni di lavoro, oggi parla di sindacato 2.0, di formazione, di competenze. Il lavoro e non più i lavoratori sono al centro dell’attività sindacale?
Il lavoro e le persone in esso devono essere al centro nelle riflessioni ma soprattutto nelle strategie organizzative e contrattuali. L’espressione “2.0” sta per sindacato generativo, luogo pubblico di condivisione delle migliori energie vitali del lavoro e del paese. Come dice il prof. Michele Faioli, in Fim-Cisl abbiamo capito per tempo che serve un’evoluzione del nostro ruolo storico proprio per mantenere la solidarietà e la giustizia tra le nostre ragioni costitutive: dalla job protection alla job creation allo skills development. Se non ci si occupa seriamente di professionalità e competenze faremo ben poco per i lavoratori. Per questo abbiamo lanciato due settimane fa “FimXSkills4.0”. Il sindacalista nuovo mastica di formazione continua, capisce e individua gli spazi per usare la tecnologia per umanizzare il lavoro, per favorire le disabilità nel lavoro, per dare continuità tra lavori produttivi e lavori di cura, in un ecosistema intelligente che riporta le persone veramente al centro.
Con la robotica sempre più presente in azienda però, la disoccupazione, sostengono in molti, è destinata ad aumentare…
Questa è una fesseria da giornalisti e docenti universitari pigri. L’introduzione di tecnologie cancella alcuni lavori e serve del tempo perché se ne generino di nuovi. Il tempo è tanto più breve quanto il Paese si prepara per tempo e soprattutto in anticipo sui cambiamenti. La guerra di cifre sulla disoccupazione tecnologica è tutta falsa perché la partita è aperta e dipende da noi. Fino ad oggi, in Italia è accaduto il contrario: la mancanza di tecnologie ha favorito le delocalizzazioni. Le nuove tecnologie abilitanti, la formazione e la nuova organizzazione del lavoro hanno generato reshoring di produzioni ormai sparite. La tecnofobia è ridicola, i robot e l’automazione c’erano ai tempi della Fiat Ritmo nel 1978. Hanno fatto molto più male le politiche sbagliate, gli incentivi per scoraggiare l’impresa verso la rendita, gli infelici cambi generazionali tra padri fondatori d’impresa a pancia a terra in azienda e figli rampolli a pancia all’aria a Formentera. Per i pigri è sempre meglio allontanare le responsabilità da sé, per questo è più conveniente prendersela con la globalizzazione e la tecnologia.
Bentivogli e la politica. Lei è critico con il grillino Di Maio e il suo reddito di cittadinanza ma anche con il piddino Calenda con il quale ha scritto il “Piano industriale per l’Italia delle competenze” convergendo su flessibilità, lavoro 4.0, innovazione. Ma si può fare un piano serio per il lavoro, l’impresa, lo sviluppo, senza finire ostaggio di anacronismi, populismi, ideologie e pii desideri senza copertura finanziaria?
Non ho tessere di partito e giudico gli alberi dai frutti: con Calenda al Ministero dello Sviluppo Economico abbiamo avuto un interlocutore credibile e concreto. Avere sintonia su alcuni temi di fondo non significa condividere il 100%. Sarebbe una noia mortale. Anzi, sarebbe ora che la politica ritorni a trovare articolazioni vere sul merito per ritrovarsi sulle grandi priorità in azioni comuni. La sintesi è ricca se le idee sono tante, meditate, profonde, argomentate. I primi passi di Di Maio non mi sono piaciuti, utilizzare la consulenza della parte del sindacato più “tardo novecentesca”, fa produrre provvedimenti tra l’inutile e il dannoso e senza neanche la carica simbolica a cui il ministro auspicava. Per fortuna che su alcuni aspetti la Lega, quelle rare volte che non si occupa di bullismo dei poveri contro i più poveri, ha aiutato i 5Stelle a limitare le fesserie. Basta vedere Ilva o la delocalizzazione della Bekaert: testiamo su quest’ultima il decreto anti-delocalizzazione, se non funziona impariamo ad ascoltare chi si batte da decenni per rendere questo paese un habitat favorevole al lavoro dignitoso e alle imprese e non a chi le ha fatte scappare. Detto ciò, se Di Maio cambierà rotta su un terreno post-ideologico e concreto, avrà tutto il mio sostegno.
Il “Decreto dignità” è dunque un ritorno al passato? Finirà per penalizzare proprio i lavoratori? Più rigidità uguale meno spazio di manovra alle imprese?
Occuparsi solo della durata dei contratti può avere un effetto controproducente. Ci sono le causali, le percentuali di utilizzo per sito. Se un’impresa ha strutturalmente più della metà dei contratti a termine è “un temporary outlet” non un’impresa… Bisogna costruire il percorso per cui si passa ad un lavoro meno precario. Sia chiaro: non tutti i lavori flessibili sono precari. Ma anche qui, i contratti a termine vanno riempiti di formazione, perché non si è pensato a rendere esigibile il diritto alla formazione in questi contratti? Più si investe sulle competenze e più ci si terranno strette le persone. Abbiamo solo 58.000 apprendisti: 8.000 persone negli Its, la Germania ne ha 800.000. La dignità si conquista per decreto in tv e sui social, ma non sul lavoro. Ripeto: fare scrivere queste cose alla parte più reazionaria del sindacato è come affidare i corsi pre-matrimoniali a Fabrizio Corona.
E se lo facesse Marco Bentivogli il ministro del Lavoro? Quale sarebbe il suo programma?
C’è un esercito di persone più brave di me per quel ruolo, ma per evitare di non rispondere, dico: mettere in rete le buone cose che ci sono già dentro un grande “Fraunhofer Institute” italiano. Ridurre le tasse sulla cosa più tassata in Italia con un cuneo del 10% maggiore d’Europa: il lavoro. Dare continuità alle cose che sono andate bene sin qui: il piano Industry 4.0 e il credito d’imposta sulla formazione. Iniziare a certificare le competenze. Inserire il diritto soggettivo alla formazione come elemento imprescindibile di qualsiasi rapporto di lavoro. Dare sostegno alla contrattazione territoriale. E soprattutto costruire una grande “alleanza per il lavoro futuro” con tutti coloro che guardano allo specchietto retrovisore solo per fare manovra e non per guardare avanti. Il 65% dei bambini che frequentano le elementari faranno dei lavori di cui oggi non conosciamo neanche il nome. Bisogna rinforzare e, in larga parte, costruire un sistema educativo duale. Fare rete tra i soggetti che fanno ricerca e innovazione tecnologica e sostenere la grande innovazione con un Digital Pir ad almeno due-tre cifre, come sostiene l’amico Carlo Alberto Carnevale Maffè.
I giovani: in Italia continua ad esserci un collo di bottiglia tra ingresso nel mercato del lavoro e sistema pensionistico sostenibile. Come se ne esce?
Uscendo dal “ricatto del breve termine” iniziando a guardare i dati dei nostri megatrend che ci descrivono come un paese in “degiovanimento”, sempre più vecchio e da cui i giovani scappano. Il rapporto tra spesa previdenziale e spesa per istruzione e sostegno alla famiglia descrive le scelte di priorità di un paese. Nessuno vuole scontri generazionali ma se accanto all’Italia si aggiunge sempre di più “non è un paese per giovani”, non ci stupiamo poi che la Germania con gli stessi squilibri demografici attragga giovani che da noi scappano.
Ma questo Paese ce l’ha o no un’identità economica futura? Anche se se ne parla poco, l’automazione-meccatronica, ad esempio, resta il vero traino dell’export Made in Italy.
Questo Paese è piccolo e povero di materie prime. L’export è pertanto una condanna e un’opportunità. Lo scorso anno, le esportazioni sono cresciute in maniera più sostenuta rispetto agli ultimi 25 anni, in particolare verso l’area euro e, più in generale, tutte le zone a valuta forte, il che dimostra che l’euro non ci danneggia. Andando oltre il dato complessivo del manifatturiero, poi, il 52% dell’export è riconducibile al metalmeccanico. Senza quel surplus di bilancia commerciale, oggi parleremmo d’altro.