Raggiungere milioni di visualizzazioni con post su Facebook e storie su Instagram dedicate al fintech, al business, strategie di comunicazione o al debunking delle bufale dei negazionisti del Covid-19 non è proprio lo stesso che farlo postando foto di e con celebrities o gattini. Eppure si può, anche facendo il CEO e non l’influencer di professione. Del resto, Roberto Esposito alle cose straordinarie ci ha abituato fin da quando, a 26 anni, è entrato nel Guinness World Record per il maggior numero di commenti ad un singolo post di Facebook. “Lo feci per gioco, era il 2012, un paio di epoche fa. Quell’esperienza mi è stata molto utile, mi resi conto di quanto stesse cambiando non solo il modo di comunicare ma soprattutto quello di coinvolgere i tuoi interlocutori”. E non a caso è stato proprio l’audience engagement, la capacità di riconoscere valori su cui poter coinvolgere i destinatari di un messaggio, sia esso una campagna del Ministero della Salute o della Banca d’Italia, il pezzo forte di Roberto. A riconoscerglielo, nel 2013, sono stati anche il Parlamento Europeo e Microsoft nominandolo Digital Democracy Leader.
Pioniere del crowdfunding in Italia, fondi nel 2012 DeRev, consolidatasi negli anni come la piattaforma di riferimento per il reward crowdfunding, nonché per il cosiddetto crowdfunding civico. Di cosa si tratta?
Se il crowdfunding tradizionale consente ad artisti, innovatori, startup e associazioni di finanziare le proprie idee, il crowdfunding civico punta a creare un sistema per raccogliere fondi e partecipazione con cui realizzare progetti e iniziative territoriali che contribuiscano allo sviluppo locale e alle comunità. E c’è un ulteriore valore aggiunto, poiché i progetti non sono di carattere personale o promossi da un soggetto privato, ma uniscono tutti gli attori e gli stakeholder di un territorio – cittadini, Comuni, aziende, associazioni, scuole e organizzazioni locali – per un obiettivo condiviso di interesse pubblico che mira a generare crescita e valore per l’intera comunità: in tal senso, il civic crowdfunding rappresenta uno strumento innovativo, trasparente e meritocratico attraverso cui le Pubbliche Amministrazioni possono elargire fondi alle iniziative sul territorio in co-partecipazione con i cittadini, ad esempio raddoppiando i finanziamenti che ciascuno progetto raccoglie autonomamente dagli utenti. Sulla nostra piattaforma DeRev.com, le campagne di crowdfunding civico vengono lanciate sia dagli enti locali – principalmente Comuni e Regioni che intendono finanziare e realizzare progetti in prima persona – sia da consorzi, aziende, scuole e associazioni con il supporto della Pubblica Amministrazione locale, che in molti casi apre su DeRev una sezione dedicata in cui ospitare e promuovere tutte le campagne del proprio territorio. Tra i più attivi in Italia c’è sicuramente il Comune di Mantova, ma anche brand come Coca-Cola e Wind Tre, e di recente l’Istituto Spallanzani di Roma, che ha scelto DeRev per la propria campagna di raccolta fondi per finanziare le attività legate all’emergenza sanitaria e la ricerca sul COVID-19.
Oltre al crowdfunding, DeRev si occupa di strategia digitale, audience engagement e comunicazione sui social media, crisis management e reputazione online: a tal proposito, avete all’attivo molte collaborazioni con prestigiosi attori nel mondo bancario e finanziario, tra cui Mediobanca, Intesa Sanpaolo, Gruppo Sella e anche Banca d’Italia. Cosa avete fatto per l’Istituto di Palazzo Koch?
In virtù delle competenze specifiche e delle esperienze sviluppate in questi anni, DeRev si è andata sempre più specializzando nella comunicazione in ambiti particolarmente sensibili, come quello finanziario o istituzionale, dove ogni scelta e ogni dettaglio possono generare un impatto significativo sugli utenti e sui mercati, portandoci ad essere scelti e a collaborare con brand e istituzioni di altissimo profilo e prestigio. Per Banca d’Italia, in particolare, abbiamo fornito un supporto per l’elaborazione di un piano strategico editoriale per la loro comunicazione sui social media, affiancando il team interno, già qualificatissimo, nell’elaborazione di forme e modalità di interazione. Ci è stato anche chiesto un contributo in termini di individuazione degli influencer nel settore finanziario, per individuare gli snodi della comunicazione settoriale e poter capire come innestare delle azioni utili a migliorare il tasso di educazione finanziaria del pubblico.
Le banche stanno diventando digitali anche in Italia, che ne pensi del fenomeno delle Challenger Bank?
Il digitale è la naturale evoluzione di quasi tutti i sistemi sociali, e quello economico-finanziario non fa eccezione. In questo senso, il vero trend è l’open banking: nuovi operatori che aprono un mercato innovativo per gestire denaro e rapporti finanziari, costruendo con gli utenti una relazione basata su una fiducia diversa da quella che si ripone nelle banche tradizionali. Le Challenger Bank si avvicinano alla sensibilità del pubblico cercando di interpretarne le esigenze nella maniera più semplice e diretta, facilitando le operazioni e puntando sulla trasparenza totale. Sono un interessante elemento che arricchisce un sistema, rendendolo più vivo, vitale e competitivo. Non sostituiscono ma aggiungono, e questo è sempre un bene.
Sei molto seguito sui social media, con più di 100mila followers su Facebook e Instagram. Quali sono gli argomenti che più interessano il tuo pubblico? E, nel caso non coincidessero, quali quelli che preferisci tu?
Sono da sempre molto attivo, in particolare su Facebook (fb.com/about.Rob) e Instagram (@RobertoEsposito85), dove mi piace sia sperimentare nuove strategie e studiare le dinamiche di comportamento delle persone, come feci con il Guinness World Record, sia raccontare le idee a cui lavoro e le mie opinioni su ciò che accade intorno a me. Gli argomenti più apprezzati sono sicuramente legati a ciò di cui mi occupo con il mio lavoro: business, startup innovative e imprenditoria, strategia digitale e social media, campagne di comunicazione e di marketing, strategia politica, tendenze e mondo del lavoro. Tuttavia, a differenza di influencer e divulgatori che parlano di tanti argomenti diversi ma da un punto di vista esterno o raccontando la propria esperienza da utenti, il mio lavoro mi porta inevitabilmente ad avere l’approccio opposto: quello da insider. Parlando esclusivamente di cose che faccio in prima persona, infatti, ho l’opportunità di viverle e comprenderle dall’interno e quindi di raccontarne i backstage, mostrare l’altro lato della medaglia e analizzare le strategie secondo cui funzionano. Inoltre, io non vendo niente: tutto quello che racconto con post, video e storie non ha una finalità commerciale e non nasce con l’obiettivo di convincere il mio pubblico a cliccare, iscriversi o acquistare qualcosa. Mentre consulenti, guru, formatori ed esperti vari puntano sempre a trasformare i propri follower in clienti, io conservo gelosamente la libertà di poter parlare alle persone senza alcun secondo fine, concentrandomi esclusivamente sulla qualità dei contenuti e sul valore che questi generano per chi è interessato a seguirmi e confrontarsi con me.
Si parla moltissimo di transizione digitale, eppure da quello che emerge dall’ultimo rapporto Desi, che misura la maturità digitale dei Paesi europei, siamo molto indietro. Nella graduatoria generale, l’Italia si colloca solo al 24esimo posto su 28. Quali le ragioni di questo ritardo?
Mancanza di educazione al digitale, e non mi riferisco agli strumenti. Perché in Italia tutti hanno uno smartphone o anche più di uno, ma il digitale viene ancora considerato in molti settori una pratica “ulteriore”, come se non fosse – ormai da anni – un pezzo essenziale di qualsiasi esperienza. Viviamo in un mondo ibrido online-offline, in cui le cose accadono simultaneamente a più livelli. Anche il ritardo sulla banda larga e sulle infrastrutture penalizza tutti, com’è emerso anche con lo smartworking e la didattica a distanza che hanno costretto scuole e aziende a riorganizzare tutti i loro processi e abitudini. Non tutti i territori hanno le stesse possibilità: in alcune aree è ancora impossibile lanciare una startup digitale, creare uno spazio di co-working o avviare un processo di trasformazione digitale per una PMI, quasi sempre per mancanza di cultura all’innovazione e al digitale ma anche di infrastrutture che consentano connessioni veloci ed efficienti. Per le persone, il digitale è un importante strumento di crescita, emancipazione e sviluppo se lo usi per ampliare le tue conoscenze, costruire relazioni e progetti, sviluppare nuove competenze, altrimenti è di fatto solo un’altra forma di distrazione.
Hai fatto da spin doctor digitale numerosi politici, lavorando per anni anche con Vincenzo De Luca. Come giudichi il suo successo sui social?
Ho iniziato a lavorare con Vincenzo De Luca nel 2014 e mi colpì immediatamente perché, pur non essendo personalmente propenso ai social media, ebbe la lungimiranza di voler costruire con largo anticipo la sua strategia digitale per le Primarie e le successive elezioni regionali del 2015, mentre di solito gli altri personaggi politici si decidono ad investire sulla comunicazione digitale solo negli ultimi mesi prima del voto, tentando (invano) di recuperare un gap abissale con chi li utilizza da anni, con costanza e dedizione. Vincenzo De Luca ha la capacità di interpretare lo strumento, avendo compreso alla perfezione che il classico approccio istituzionale non funziona in un’arena – quella digitale – nella quale i tempi sono serratissimi, il livello di attenzione molto labile e l’interazione con i cittadini spesso impulsiva e incontrollabile. Attrarre l’attenzione e saperla mantenere viva, parlando di cose che sarebbero noiose per molti, usando linguaggi informali, trucchi retorici e quasi teatrali, è la dimostrazione di un’enorme intelligenza strategica, al di là di tutto. Si parla di quello che vuole lui e, nonostante critiche e dibattiti, il suo approccio pragmatico e deciso – emerso con ancora maggiore forza nella gestione dell’emergenza sanitaria – è molto apprezzato dai cittadini sui social media. Quindi l’obiettivo è raggiunto.
Quali sono i trend futuri che immagini per l’attività strategica da spin doctor?
Più che immaginare un trend direi che lo “sento”, viste le richieste che riceviamo. Cresce sempre di più l’esigenza di un supporto sulla comunicazione strategica di personaggi del mondo aziendale – amministratori delegati, manager e decision-maker – che sentono la necessità di un affiancamento sulla presenza digitale, e non solo. Non stupisce, se si pensa che ci sono studi certificati che hanno calcolato in maniera concreta l’effetto dell’immagine dei dirigenti aziendali sul valore di mercato della loro azienda in borsa, con percentuali di impatto sempre crescenti. Oggi la scelta del profilo, dei toni, del linguaggio, della coerenza di tutte le componenti dell’identità online sono più essenziali che mai, vista la possibilità quotidiana di reazioni dirette da parte dei consumatori ad eventuali cadute di stile o incidenti di percorso vari. Misurare le parole diventa un’espressione sempre più letterale e sempre meno metaforica: gli errori non vengono perdonati, una leadership riconoscibile porta frutti e riscontri immediati, all’interno dell’azienda come al di fuori. La cura della personalità digitale è rilevante quanto e più dell’attenzione ad altri profili, perché gli utenti, le persone, le riconoscono un valore importante che si riflette su quello dell’azienda e di ciò che offre.
In tal senso, quali sono le richieste del mondo imprenditoriale? E che tipo di servizi si offrono in questo caso?
Naturalmente un supporto totalmente personalizzato, ma in genere i servizi vanno dalla cura quotidiana della comunicazione personale del manager – che richiede un contatto quotidiano e continuativo, con un rapporto assolutamente personale e fiduciario – alla formazione e informazione di più manager (in alcuni casi, anche l’intera rete commerciale) che un’azienda vuole valorizzare. Accade con gli “Ambassador Program”, in cui i dirigenti si fanno primi portatori del messaggio legato alla missione dell’impresa e necessitano di un supporto e accompagnamento più o meno pervasivo per entrare nel modo giusto nei flussi della comunicazione social, Linkedin in primis. L’altro grande segmento di attività è quello della consulenza per l’elaborazione della policy aziendale per i social media, un piano che allinea strategicamente le possibilità di espressione sui canali digitali di tutti i membri della compagine, così da dettare linee guida utili a limitare errori che potrebbero apportare seri danni all’immagine e al posizionamento dell’organizzazione. In questo senso sono anche molte le esperienze di formazione che con DeRev stiamo preparando e somministrando a diverse realtà in tutta Italia. Si è compresa perfettamente l’importanza dello strumento digitale, ora è essenziale per tutti colmare il gap di competenze per la corretta interpretazione di un mondo affascinante ma assai complesso da decifrare, come accade per tutte le cose apparentemente semplici.
Durante la pandemia i tuoi video in cui smonti teorie del complotto, negazionisti e fake news hanno ottenuto oltre un milione di visualizzazioni. Sei molto attento al tema del debunking. Da quando hai gestito le campagne di comunicazione sull’obbligo di vaccinazione per il Ministero della Salute a oggi credi sia cambiata la sensibilità dell’opinione pubblica? E quale credi che possa essere la soluzione?
È cambiata, in peggio. I social media sono uno strumento estremamente potente per raggiungere un gran numero di persone, coinvolgerle in un progetto, convincerle a compiere un’azione, a prendere una decisione o a cambiare la loro opinione. Negli ultimi 10 anni hanno stravolto le logiche del commercio, della politica, dell’informazione, ma hanno anche dato la possibilità a chiunque di diffondere ogni tipo di messaggio senza alcun controllo sul contenuto e sull’autore. Terreno fertile per movimenti estremisti, negazionisti e complottisti che usano i social media per diffondere fake news e teorie scientifiche strampalate con cui aggregare nuovi seguaci, ingannare gli utenti meno avveduti e manipolare l’opinione pubblica, generando percezioni distorte, odio e sfiducia nelle istituzioni. Non è un caso che questi fenomeni aumentino nei momenti storici più delicati come le emergenze sanitarie, gli attentati e le catastrofi per far leva sul dolore, le paure e le preoccupazioni delle persone. O che prosperino sui social network (Facebook in primis) frequentati da persone meno consapevoli e meno avvezze a comprendere le dinamiche dei social – come i nostri genitori o gli anziani – e dunque più deboli online, insistendo su temi sensibili e facilmente manipolabili per chi non ha precise conoscenze scientifiche, come vaccini, 5G, Covid-19, presunte dittature sanitarie e fantomatici ordini segreti per il dominio del mondo.
La soluzione?
A mio avviso, è basata su tre punti. Primo: verifica e certificazione dell’identità degli utenti che creano contenuti sui social media, come già avviene per la registrazione di un dominio o l’apertura di un wallet di pagamento, così da contrastare le tipiche strategie degli avvelenatori di pozzi. Secondo: monitoraggio attento e rimozione immediata di profili falsi, contenuti diffamatori e gruppi mirati a promuovere complottismi e disinformazione, con una collaborazione più diretta e veloce tra le piattaforme social e le istituzioni per il contrasto ai reati online. Terzo: educazione digitale e alfabetizzazione degli utenti al corretto utilizzo dei social network, a come comportarsi online, riconoscere le fake news e verificare le fonti per combattere molestie, clickbait, istigazione all’odio, stalking, razzismo cyberbullismo e ogni tentativo di inquinare il dibattito pubblico.