COVESRTORY
«Continuiamo a parlare di incertezza, ma lei lo sa a quando risale il modello Vuca (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity) che usiamo per definire la complessità degli ambienti di lavoro in cui ci troviamo a operare ai nostri giorni? Al 1987! Forse la verità è che stiamo reagendo male, stiamo riscoprendo l’acqua calda, siamo arrivati clamorosamente in ritardo considerando novità accadimenti che non lo erano affatto». Alfonso Fuggetta, ceo e direttore scientifico del Cefriel, il centro di innovazione digitale del Politecnico di Milano, prova a giocare il ruolo di pompiere in un momento in cui “le macchine” hanno aumentato la percezione di instabilità degli italiani. Il timore, neanche troppo velato, è che possano soppiantare la maggior parte dei lavoratori.
Professore, siamo a rischio sostituzione?
Secondo me l’approccio è sbagliato. È vero, ci sono posti di lavoro che potrebbero sparire. C’è chi dice che siano molti, c’è chi sostiene che saranno pochi. Non è questo il punto: è che si tratta di impieghi a bassissimo valore aggiunto. E mi è oscuro il motivo per cui non siano spariti prima. Perché dover raccogliere all’alba i pomodori quando ci sono macchine che possono farlo in modo più veloce e più preciso di noi? Negli impianti industriali, e glielo dico da figlio di un operaio di sabbiera, ci sono condizioni di lavoro insalubri. Nelle catene di montaggio il lavoro è ripetitivo, ma anche nelle filiali delle banche.
Quindi, la risposta è sì, siamo a rischio…
Certo che lo siamo, ma non vedo un grande problema se si riuscirà a non perdere di vista la transizione, che non si gestisce difendendo i lavori vecchi, ma aiutando lavoratori a reindirizzarsi. È un problema di politica industriale.
E' vero, con l'avvento dei robot ci sono posti di lavoro che spariranno, ma si tratta di impieghi a bassissimo valore aggiunto
Però non si può neanche pensare di “convincere” un dipendente a reinventarsi, specie se non più giovanissimo…
No, certo. E infatti qui entra in gioco un’altra “gamba” della discussione. Una precondizione è che si crei un tessuto industriale più robusto. Se abbiamo soltanto aziende microscopiche, ogni discorso si fa più complicato. Se invece si riesce a incentivare meccanismi di aggregazione, il volume maggiore consente di sostenere gli investimenti necessari a reinventarsi. Serve un lavoro di concerto di tutti per capire quali siano gli strumenti che possano aiutare le imprese. Non si può soltanto avviare crisi aziendali.
E gli imprenditori come dovrebbero comportarsi?
Per loro la tecnologia è da una parte un rischio e dall’altra un’opportunità. Se i titolari l’hanno impiegata come valore aggiunto, hanno sicuramente ottenuto dei benefici.
Ma la tecnologia è una commodity?
Ma nemmeno per idea! E considerarla tale è una iattura, perché vuol dire banalizzare il concetto. Certo che un pc o una linea internet lo sono, ma le competenze tecnologiche sono un asset fondamentale. Sminuirle, invece, si traduce in una pressione sui salari e sulle carriere dei giovani.
Ecco, i giovani: che cosa si può fare per rendere il loro futuro meno incerto?
Prima di tutto bisogna convincerli a studiare le cose giuste. Non significa che d’ora in poi potremo fare a meno delle discipline umanistiche, ma che possiamo ribilanciare l’iscrizione agli atenei “classici” con quelli delle discipline Stem. Senza dimenticare gli Its, gli Istituti tecnici superiori che garantiscono un’alta specializzazione.
Sono i robot che hanno cambiato lo scenario e accresciuto il senso di inadeguatezza?
A mio parere decisamente no. Penso che sia stato il pc (nel 1982). O, meglio ancora, il primo browser messo in circolazione nel 1994, Mosaic, che ha dato il via a un mondo interconnesso. Quello che stiamo facendo è un po’ miope: ci stiamo accorgendo solo ora, con tutti gli allarmi del caso, che lo scenario è cambiato. Ma siamo tanto in ritardo.
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