Meta Siae
MOGOL SIAE MARK ZUCKERBERG META

«O vi mangiate questa minestra o vi buttate dalla finestra». È più o meno con questo atteggiamento che i negoziatori di Meta Platforms Inc. – la big tech a stelle e strisce, nota ai più come “Meta”, che controlla i social network Facebook e Instagram, i servizi di messaggistica istantanea Whatsapp e Messenger e un mucchio di altre cose nell’ecosistema digitale – due giorni fa si sono alzati improvvisamente dal tavolo, mando a gambe all’aria le trattative che dal gennaio scorso stavano andando avanti con l’italianissima SIAE, la storica e gloriosa Società Italiana Autori ed Editori che nel nostro Paese, fin dal lontano 1882, tutela il diritto d’autore e protegge le opere di ingegno intellettuale.

Meta Siae salta l’accordo sparisce la musica

Oggetto del contendere: il rinnovo della licenza siglata nel 2019 che, dietro pagamento di un corrispettivo per i diritti d’autore, autorizza i social network di proprietà di Meta a poter usare il repertorio musicale SIAE. In sostanza tutte le canzoni italiane, da quelle di Lucio Battisti ai pezzi del giovane cantautore semisconosciuto, con cui ogni utente può corredare le proprie stories su Facebook o i propri reel su Instagram. Ma qual è l’effetto del mancato rinnovo dell’accordo – scaduto a dicembre del 2022 – di cui non sono noti nemmeno i termini economici? Semplice: tutta la musica italiana sembra destinata a sparire dal mondo social. Se non è un terremoto, poco ci manca.

Il colosso di Menlo Park, del resto, è già passato dalle parole ai fatti iniziando dal pomeriggio del 16 marzo a rimuovere e silenziare i contenuti musicali targati SIAE che erano presenti sulle sue timeline: una vera iattura per tutta la filiera della musica di casa nostra che, stando ai dati della Federazione Italiana della Musica Italiana, lo scorso anno, dal consumo di musica su piattaforme come Facebook e Instagram, ha macinato ricavi per 20 milioni di euro.

Direttiva Copyright, cosa impone alle piattaforme?

Perché ingaggiare allora una battaglia del genere, unica in tutto il panorama europeo, contro un Leviatano come la creatura di Mark Zuckerberg che, in spregio a qualunque normativa e imposizione di legge, ha potere di vita e di morte sui contenuti pubblicati sulle sue piattaforme? In Viale della Letteratura a Roma, nella sede SIAE – oggi presieduta da quell’icona senza tempo della musica italiana d’autore che risponde al nome di Giulio Rapetti alias “Mogol” – allargano le braccia: «Noi stiamo solo cercando di difendere il valore dei nostri contenuti», si difendono «è Meta che non sta rispettando quello che la Direttiva Copyright impone e ha scelto di interrompere le trattative bruscamente».

Facciamo un passo indietro. Quella normativa, approvata nel 2019 dal Parlamento Ue e recepita in Italia alla fine del 2021, cosa statuisce? La vera grande novità è che obbliga le grandi piattaforme che prestano servizi di condivisione di contenuti online “a ottenere un’autorizzazione dai titolari dei diritti, anche mediante la conclusione di un accordo di licenza da negoziare con le società di gestione come appunto la SIAE”. Statuizione che Meta però sta ottemperando. Ma allora dove starebbe la violazione?

A spiegarlo è il comunicato diramato da SIAE dopo la rottura del negoziato e secondo il quale la società americana avrebbe opposto “il rifiuto di condividere le informazioni rilevanti ai fini di un accordo equo in contrasto con i principi sanciti dalla Direttiva Copyright, ovvero le informazioni e i metadati necessari a definire il perimetro di rappresentatività e la possibilità di valutare il peso del repertorio Siae e di conseguenza consentire la ripartizione”.

Value gap, cos’è e perchè è importante

Tradotto in soldoni: tra le parti c’è quello che in Viale della Letteratura definiscono «un problema di asimmetria informativa». Vale a dire: tra l’offerta di Meta sui diritti e l’accettazione da parte della SIAE, c’è di mezzo un value gap, l’incapacità di valutare cioè se il compenso proposto per gli autori è davvero congruo rispetto ai guadagni effettivi che le piattaforme ottengono con l’utilizzo delle opere. «Il punto nodale – insiste la SIAE – sta nella differenza di valore tra quello che le piattaforme pagano e quello che gli autori vanno a ricevere: senza informazioni sui ricavi come facciamo a stabilire se l’offerta è congrua o meno?».

Sul perché Meta abbia scelto di arroccarsi e far saltare il banco delle trattative, la società presieduta da Mogol non sa darsi una spiegazione: «Magari è un riflesso della situazione di difficoltà che la società sta passando e per risolvere la quale ha attuato una politica di razionalizzare dei costi – dicono amareggiati – ma noi non possiamo rappresentare un costo, noi siamo una parte fondante dei contenuti. Senza i nostri contenuti, i social sarebbero una macchina senza motore».

Musica e social network, da Meta take down per tutti

Nel frattempo, la situazione sta volgendo al peggio, perché al take down della musica italiana su Facebook e Instagram, Meta ha fatto seguire anche la rimozione dei brani del catalogo di Soundreef – una società di collecting diversa e distinta da Siae – che gestisce brani internazionali per nulla aventi a che fare con la vertenza in corso. Uhm.

L’impressione, per dirla in romanesco, è che Meta la stia “buttando in caciara”, rimuovendo musica a random dai suoi scaffali giusto per fare terra bruciata attorno alla SIAE e attirare sulla società italiana gli strali non solo di tutti gli utenti social che si sentiranno orfani dei clip di Cesare Cremonini, ma anche degli altri gestori che amministrano diritti musicali online nel mondo.

La conferma è in un comunicato che ieri Soundreef ha diramato scrivendo a chiare lettere che «l’esito della trattativa tra Meta e Siae sta danneggiando tutte le società di collecting operanti in Italia e non». Brutta storia. L’effetto-lapidazione – una specie di marchio di fabbrica della cloaca social – sembra dietro l’angolo.

Stop ai contenuti musicali, un precedente pericoloso?

Qualcuno dice, e probabilmente non sbaglia, che la rottura delle trattative, sia per la SIAE «un trappolone» mediante il quale la big tech di Menlo Park intende costringerla a cedere sui diritti e accontentarsi di quel che passa il convento. Ricavi che a tirar fuori i pochi numeri a disposizione, sono davvero poca roba almeno in valori relativi: «Nel caso di Spotify ad esempio», fanno sapere sempre dalla Società Italiana Autori ed Editori, «l’hub prende il 30% dei proventi dell’utilizzo dei brani, le case discografiche il 55 e soltanto il 15 va agli autori che prendono la quota più piccola dei guadagni. La battaglia di principio non è per difendere i colossi ma proprio loro, i piccoli autori».

Già, ma a Meta di tutto questo sembra importare poco o nulla. Dopo aver bruciato vagonate di dollari sul metaverso, dopo il ribasso di oltre il 60% del titolo lo scorso anno e i 10 mila licenziamenti, a Menlo Park pensano solo a come mettere il segno più davanti ai numeri. A qualunque costo, anche quello di creare pericolosi precedenti di trattative-capestro nella condivisione di contenuti online. Con buona pace di ogni direttiva sul copyright.

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Caporedattore responsabile online di Economy, vive sul lago di Como e lavora tra Milano e Roma, dividendosi tra il giornale e il ruolo di consigliere per la comunicazione del Ministro delle Riforme Istituzionali. Cronista di mafia nella sua prima vita in Calabria dov'è nato e cresciuto, dal 2010 si è trasferito in Lombardia dove si è occupato di economia, turismo e agrobusiness per il Sole-24 Ore, Fiera Milano e il magazine VdG. Nel 2017 è diventato caporedattore di Economy, testata da cui ha preso un'aspettativa tra il 2018 e il 2021 per svolgere l'incarico di capoufficio stampa del Presidente del Senato. E' autore del libro "Noi gli Uomini di Falcone" (Sperling&Kupfer) e di progetti per il sociale - come In&Aut Festival - l'economia e il turismo.