Altro che tecnologia o energia, verde o fossile che sia. È il lusso il settore più robusto, il meno permeabile alle crisi ed il più rapido a ripartire al rialzo. Niente sembra in grado di fermarne la corsa: non ci sono riusciti i gilets jaunes che pure volevano trasformare gli Champs Elysées nella loro Bastiglia. E nemmeno le chiusure delle metropoli cinesi, i principali clienti delle griffes. Per non parlare del blocco dei flussi turistici dall’Asia, i problemi della Brexit e di tutte le altre calamità di questi anni travagliati da guerre che hanno svuotato via Montenapoleone di fate in arrivo da Mosca o di milionari/e impoveriti dai tassi in salita. Incuranti degli ostacoli, i titoli del lusso hanno continuato a sfilare sui tabelloni virtuali dei mercati al seguito della regina Lvmh, l’ammiraglia del settore con i suoi settanta e più marchi. Un gioiello che è stimato a metà gennaio a 390 miliardi di euro, ovvero 30 volte gli utili. Molto più di Apple, stimata 18 volte circa gli utili, o di altri campioni ad alto tasso di crescita. E lo stesso vale per Kering, casa madre di Gucci, Hermès e le altre maison, non solo francesi: quanto potrebbe valere l’impero Armani od il controllo di Rolex?
È in questa cornice che merita interpretare i cambiamenti che stanno investendo il settore, a ben vedere tutt’altro che maturo. Il concetto di lusso, infatti, non è più, da tempo, limitato entro i confini tradizionali ma ha contagiato buona parte del manufacturing, dall’auto all’alimentare, ed ancor più il mondo dei servizi: ristorazione, alberghi, viaggi, gestione del tempo libero. Non c’è settore che sfugga agli appetiti dei Big del Lusso. Ma, viceversa, l’appartenenza al club del Lusso, insegna Ferrari, è il requisito base per poter contare su multipli eccellenti. Grazie alla fame per lo shopping che accomuna ad ogni latitudine i ricchi vecchi e nuovi.
Di qui la spinta alla trasformazione dei Big, da semplici case di moda ad aziende sempre più complesse, attive in tutte le attività in cui un brand aumenta il valore, che si tratti di uno champagne piuttosto che di una cravatta. Anche così si spiegano i movimenti all’interno del settore: i gruppi francesi, dopo aver collezionato marchi su marchi, stanno trasferendo la gestione creativa ai dirigenti più bravi, ma concentrando le leve del potere ai piani più alti, nelle mani di un capitalismo a forte impronta familiare, come dimostrano Arnault/Lvmh, Pinault/Kering per non parlare della tribù Hermès. Il caso vuole (ma non è un caso) che in questa selezione primeggino le donne e gli uomini del made in Italy, frutto di una straordinaria selezione del gusto che discende dal Rinascimento o anche più in là. Merita celebrare i successi di Pietro Beccari, oggi alla guida di Lvmh dopo aver moltiplicato per tre le vendite di Dior in quattro anni o degli altri assi, da Alessandro Michele a Grazia Chiuri e Francesca Bellettini.
Ma è possibile, vi chiederete, che per una qualche legge sconosciuta, l’evoluzione debba riguardare solo i gruppi francesi? In realtà qualcosa si sta muovendo anche nel Bel Paese. In casa Prada si è insediato un manager come Andrea Guerra, ma quasi in contemporanea Patrizio Bertelli e Miuccia hanno nominato Gianfranco D’Attis, quale Ceo del marchio. Potrebbe essere il primo passo per un disegno più ampio, ovvero la nascita di un gruppo multibrand, il traguardo fallito a suo tempo da Hdp. In questa chiave del resto si sta muovendo Zegna, alleata di Prada nello shopping di aziende di qualità, ma anche Renzo Rosso. E lo stesso Remo Ruffini di Moncler.
È troppo tardi? Certo, non c’è spazio per far concorrenza a Lvmh. Ma l’Italia può fare la sua parte in questa partita globale perché le praterie del lusso sono davvero infinite: c’è spazio anche per noi nello sport luxury legati gusti di Millennials e Gen Z. È qui che i gruppi italiani possono trovare terreno fertile per diventare grandi. Purché anche la finanza sappia pensare in grande.