Altro che “sofà del produttore”: i numeri parlano chiaro. Su 11 membri del board, 7 sono donne. È donna la Presidente e Ceo dei Mercati Internazionali, Pamela Kaufman. Ed è donna la Coo dello stesso perimetro, Katherine Liu. Sono donne più del 55% dai senior Vice President in su. E sono donne più del 55% delle persone promosse in quei ruoli. Il 56% del middle management in Italia è donna. Ma su tutto colpisce il dato sul gender pay gap, che in Italia è addirittura negativo: le donne in media guadagnano l’1% in più degli uomini. Se ad avere questi numeri è il leader mondiale nel settore dei media e dell’entertainment, un colosso da oltre 30 miliardi di dollari quotato al Nasdaq, significa che qualcosa è davvero cambiato. «Ma non è solo questione di numeri», spiega a Economy Elena Gallo,  Vice President Human Resources International P+ e Global Distribution di Paramount: «Il settore dell’audiovisivo ha una responsabilità non da poco. Riflette il cambiamento sullo schermo e deve farlo in maniera “naturale”. Non solo rappresentiamo la realtà, ma definiamo anche cosa è normale».

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A partire dal 21 novembre ampliata l’operatività dei Ristori da €300 milioni riservati alle imprese colpite dall’alluvione in Emilia-Romagna. La nuova misura, destinata a indennizzare le perdite di reddito per sospensione dell’attività per un importo massimo concedibile di 5 milioni di euro, è rivolta a tutte le tipologie di impresa con un fatturato estero minimo pari al 3%.



Mica semplice.

Ma neppure così difficile. È una sorta di binge watching nel quale tutti adottiamo un doppio sguardo: dall’esterno così come dall’interno. Chiunque fruisce un nostro contenuto deve poter rispecchiarcisi, trovare il personaggio, la storia o lo scenario che in qualche modo ricordi casa, in cui immedesimarsi non sentendo il peso della diversità o del giudizio altrui. Quello che rappresentiamo deve essere non solo rappresentativo, ma anche significativo: shape the culture, insomma. E per farlo, attingiamo alle esperienze dirette dei nostri dipendenti.

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E la sua?

Ho avuto la fortuna di formarmi in vari paesi: Psicologia all’Università La Sapienza di Roma, Psicologia Sociale all’Università di Cambridge e un Mba all’Iese di Madrid, dove ho iniziato la mia carriera professionale Poi, dopo12 anni di studio e lavoro all’estero, tra Messico, Regno Unito e Spagna, sono entrata in Paramount nel 2013 e oggi, nel mio attuale ruolo, ho uno sguardo su 22 Paesi, uno diverso dall’altro. Questo sicuramente mi ha permesso di avere una visione molto eterogenea e, al tempo stesso, molto people centric. Spostando quindi il focus dell’HR dal processo al purpose: “perché lo stiamo facendo? A chi/cosa serve? È il tema centrale della rappresentazione e della significatività…

…ovvero?

In Paramount lo chiamiamo “Content for change” ed è una delle nostre attività principali. Per raccontare delle storie che siano reali e significative per tutti i tipi di audience, stiamo investendo in progetti di ricerca per capire tanto quanto il nostro attuale contenuto sia rappresentativo e significativo, quanto come meglio poter rappresentare la realtà con le sue mille sfaccettature, proprio dal punto di vista delle varie comunità sotto-rappresentate. Parliamo con i diretti interessati, con le comunità, per capire se effettivamente un contenuto è rappresentativo, corretto, realista. Non solo: lavoriamo perché tutta la catena di produzione sia diversity ed equity proof: chi scrive le storie, chi si occupa del casting, gli attori, gli operatori dietro la macchina da presa. L’inclusione non è solo quella che si vede sullo schermo, ma quella che coinvolge tutta la filiera. No diversity no commission policy è la nostra politica di produzione a livello aziendale in vigore da fine 2020 per promuovere la diversità, l’eguaglianza e l’inclusione, richiedendo che tutte le nuove produzioni internazionali siano realizzate da un team eterogeneo. La politica si applica alle attività di Paramount nei cinque continenti e in più di 180 Paesi. Una volta approvato il budget, il commissario o il responsabile del progetto verifica l’adeguatezza della diversità e raccomanda eventuali miglioramenti.

Questa è la forma, ma la sostanza?

In più, forniamo anche a tutto il personale di produzione i training anti-bias, perché la nostra responsabilità è far sì che chi sta gestendo le produzioni per noi sia allenato a riconoscere i famosi bias inconsci, i condizionamenti non coscienti. E uno di quelli più forti è quello di genere.

A proposito: torniamo sulla responsabilità dell’industria dei media sulla rappresentazione della donna?

Be’, l’audiovisivo ha rappresentato quella che era la realtà del tempo. Così come non banniamo tutta l’arte antica perché, con gli occhi di oggi, non è DEI proof, la negazione del nostro passato non aiuta a costruire un futuro migliore. Grazie a Dio stanno cambiando le cose: noi le vediamo in forma distinta e cerchiamo di contribuire a rappresentare le donne in modo diverso.

Quanto alla sostanza all’interno di Paramount?

Intanto chi si occupa di selezione segue training specifici su come non essere biased durante il processo. E mettiamo una serie di filtri a monte, incluso un software che elimina dal curriculum fotografie, riferimenti di genere, tipi di università frequentati, proprio per assicurare il blind hiring. Poi, però, quando ci si siede davanti alla persona per il colloquio, per quanto non ci piaccia ammetterlo, il bias di similarità rischia di subentrare. Ecco perché tutta la leadership viene regolarmente formata per riconoscere i bias inconsci e l’harassement. Inutile concentrare tutti gli sforzi solo al momento di fare promozioni e alzare il salario: se a tutto il resto del lifecycle non ci si sta attenti, i risultati sono pochi.

A proposito di promozioni: come hanno fatto così tante donne, in Paramount, a scalare la vetta?

Cerchiamo di assicurare piani di successione il più eterogenei possibile: se nella pipeline sono tutti uomini, caucasici e di un certo ceto socioeconomico difficilmente si riuscirà ad essere inclusivi. Ogni manager poi, è soggetto a una sorta di valutazione: una parte della retribuzione variabile da noi dipende da quanto il manager sia stato attento alle tematiche DEI nelle sue scelte di gestione. E la nostra survey semestrale interna pone anche domande che hanno a che vedere con l’abilità del manager di essere inclusivo: è un tema su cui tutti siamo chiamati in prima persona. La survey chiede a ciascuno quanto l’azienda si prende cura di lui/lei, se sente di poter esprimere se stesso nella maniera più completa possibile, quanto si sente rispettato e a suo agio nel luogo di lavoro. Le cose le si cambia un passo alla volta: è importante che il singolo si senta chiamato in prima persona a esprimersi e contribuire.

E l’azienda cosa fa?

Fa tanto. Ma secondo me la più bella iniziativa che c’è in questa azienda, proprio perché nasce  “dalle persone per le persone”, e a cui ognuno di noi può contribuire: è l’Erg, Employee resource group: ci si riunisce intorno a un tema di interesse comune, in uno spazio sicuro, se ne discute e si individuano soluzioni. C’è Fusion Erg, che sostiene la diversità culturale e la rappresentazione sul posto di lavoro, Women+ Erg, impegnata nel supporto e valorazione delle donne in azienda, attraverso istruzione, tutoraggio e sforzi filantropici, Parenthood Erg, un gruppo che si occupa del benessere, intrattenimento e soprattutto supporto alle nostre persone con figli… E in generale basiamo le nostre soluzioni aziendali su ciò che è veramente importante per i nostri collaboratori, ovviamente tenendo da conto le particolarità di ognuno con degli approcci anche molto creativi. Ma insisto: quella che conta è l’accountability personale: it’s everyone responsability. La partecipazione di ognuno è indispensabile: si riesce a produrre un vero cambiamento solo nel momento in cui c’è un contributo da parte di tutti.