Protezionismo? Autosufficienza? Nuovo approccio local-to-local? Ri-globalizzazione? Re-shoring? Back-shoring? Near-shoring? Per dirla con Marx ed Engels “nuovi spettri si aggirano per l’Europa”. E potremmo aggiungere che “tutte le potenze della vecchia Europa si stanno coalizzando” non più “in una sacra caccia contro il comunismo”, ma (in questo caso) per riportare a casa una parte delle supply chain globali messe a rischio dal Covid-19 prima, dalla guerra poi, dalle crisi dell’energia e delle materie prime in mezzo. Vale a dire i “cigni neri” che negli ultimi due anni e mezzo hanno spazzato via tutte le certezze che 30 anni di economia felicemente (ma dipende dai punti di vista) interdipendente e globalizzata sembravano aver messo ormai in cassaforte. Fattori imprevisti che per le catene globali del valore hanno tralignato in qualcosa di straordinariamente disruptive.  Gli analisti lo chiamano supply shock, un’improvvisa e drammatica interruzione delle forniture. L’esempio più eloquente? Il fermo, causa Covid, della produzione di semiconduttori nel 2020 in Cina e il conseguente shortage di chip che ha mandato all’aria a livello globale settori come elettronica e automotive ma anche l’imprevista penuria di mascherine in Europa nelle prime fasi dell’emergenza sanitaria. Insomma, la Globalization Age è arrivata al capolinea? Forse è troppo presto per dirlo o forse, più realisticamente, non ci sono le condizioni. La globalizzazione, del resto, come spiegava già 15 anni fa il sociologo Jürgen Habermas, non è forse «l’insieme dei processi cumulativi di espansione mondiale del commercio e della produzione, dei mercati delle merci e finanziari, della moda, dei media e dei programmi per computer, delle reti di notizie e di comunicazione dei sistemi di trasporto e dei flussi migratori»? Difficile rinunciare di colpo a tutto questo. Tuttavia, passando dal generale al particolare, quel che è certo è che in questi ultimi anni, la produzione just in time, basata su forniture a basso costo da Oriente verso Occidente, dopo decenni di innegabili vantaggi, ha palesato tutti i suoi limiti e l’estremo bisogno di essere accompagnata da una gestione del rischio lungimirante ed efficace.

Catene produttive, si torna a casa

Gli effetti devastanti dell’emergenza pandemica e gli shock che ne sono conseguiti sul mercato delle commodities e dell’energia, lo hanno fatto vedere chiaramente: una supply chain globalizzata è una supply chain esposta alle intemperie. E per garantire la business-continuity, come sostiene il Dipartimento del Center of Transportations and Logistics del Mit di Boston, oggi alle imprese occidentali «servono paradigmi nuovi incentrati su resilienza, adattabilità, flessibilità». Va da sé che, per rendere le organizzazioni più adattabili al cambiamento, riposizionare in chiave locale i punti di approvvigionamento di semilavorati e materie prime, di produzione e di consumo è diventata dunque un’opzione quasi obbligata. E infatti oltre il 60% delle aziende manifatturiere europee e statunitensi, secondo una ricerca del centro studi Srm collegato a Intesa Sanpaolo, prevede, entro i prossimi tre anni, di far rientrare parte della propria produzione asiatica in Europa e negli Stati Uniti. Mentre per ciò che concerne il nostro Paese, nel 2021 si sono già registrati 171 casi di reshoring (ovvero la “rilocalizzazione” volontaria totale o parziale delle attività produttive in un paese diverso rispetto a quello in cui erano state precedentemente delocalizzate) che hanno interessato aziende italiane, tra le quali il 44% proviene da imprese localizzate nel Far East, (33% dalla Cina, 22% da Europa orientale e Russia). La conferma di una lenta ma graduale marcia di avvicinamento degli impianti produttivi verso i mercati nei quali i prodotti sono destinati. La stessa Commissione Europea, a inizio febbraio scorso – cioè prima ancora che la Russia di Putin invadesse l’Ucraina creando altre “interruzioni” importantissime nelle catene di fornitura – aveva annunciato l’European Chips Act, il disegno di legge che, mediante investimenti per 45 miliardi di euro, prevede di portare la produzione di semiconduttori in Europa dall’attuale 9% al 20% entro il 2030. «Il Chips Act europeo cambierà le regole del gioco per la competitività globale del mercato unico europeo. A breve termine, aumenterà la nostra resilienza alle crisi future, consentendoci di anticipare ed evitare interruzioni della catena di approvvigionamento. E a medio termine, contribuirà a rendere l’Europa un leader industriale in questo settore strategico» sono state le parole usate in quell’occasione dalla presidente Ursula von der Leyen che ha aggiunto: «Nessun Paese e nemmeno Continente può essere del tutto autosufficiente. L’Europa, nell’interesse del mondo nostro, lavorerà sempre per mantenere i mercati globali aperti e connessi ma vi è la necessità di affrontare le strozzature che rallentano la crescita europea». Abbastanza, insomma, per far capire che, pur senza volersi spingere verso obiettivi protezionisti che la Storia ha già mandato in soffitta da tempo, l’obiettivo dell’autosufficienza è già realtà anche nelle politiche comunitarie. In questo quadro di accorciamento delle supply chain e di messa in discussione delle forniture globalizzate, «la ridislocazione dei flussi commerciali non sarà più riconducibile a un modello unico, ma a molte diverse soluzioni che gli operatori cercheranno di mettere in campo per gestire l’uscita da un paradigma di riferimento ormai dissipato»: così il Centro Studi di Confindustria ha sintetizzato la situazione in un report messo a punto di recente, certificando che «una di queste soluzioni è rappresentata proprio dal reshoring nelle sue diverse forme: “back-shoring” nel caso in cui la rilocalizzazione ha come destinazione il paese di origine dell’azienda, “nearshoring” quando invece avviene verso un paese più vicino al paese di origine».

Ma la spinta non viene solo dal Covid

«Secondo una nostra indagine, su 100 imprese italiane, 75 avevano delle forniture dall’estero e di queste ultime, negli ultimi 15 anni, ben 23 hanno cambiato le forniture, scegliendo, in qualche caso totalmente o parzialmente, dei fornitori italiani. Le motivazioni? La grossa affidabilità del fornitore italiano o la riduzione dei costi. Ma questo è un processo che va guardato sotto tanti punti di vista» spiega ad Economy il direttore del Centro Studi di Confindustria Alessandro Fontana.

Secondo il quale ad accelerare la rilocalizzazione delle attività produttive e delle forniture – oltre alle contingenze sanitarie e geopolitiche e a una connotazione del mercato sempre più “Vuca” (volatility, uncertainly, complexity, ambiguity) – c’è anche la transizione in corso verso un sistema produttivo più “sostenibile” dal punto di vista sociale e ambientale. «Nel momento in cui andremo a contabilizzare nei costi anche l’impronta carbonica – aggiunge – le imprese giocoforza si sposteranno su fornitori più green. E questo non potrà non incidere ulteriormente sull’accorciamento delle forniture, visto che le imprese con la carbon footprint più bassa si trovano in Europa». Il direttore del Centro Studi di Confindustria puntualizza però che il reshoring, non è un fenomeno che è stato innescato dal Covid: «è dal 2015 che assistiamo a un generale accorciamento delle catene globali del valore – afferma – e sono diversi i fattori che incidono: tra questi sicuramente negli ultimi anni c’è stata l’emergenza pandemica con le chiusure temporanee dei porti, gli aumenti dei costi di trasporto, la scarsità di beni prodotti in alcune aree sottoposte a lockdown.

Tutto ciò ha spinto le imprese a cercare altri fornitori per accrescere la propria resilienza ed evitare il fermo della produzione. La guerra ha quindi bloccato i commerci di un’area molto più ampia come quella ricompresa tra Russia, Ucraina e Bielorussia interrompendo le rotte globali. Anche i rapporti tesi tra Usa e Cina e la Brexit hanno influito sulla regionalizzazione degli scambi». Per Fontana, insomma, il re-design delle catene di approvvigionamento è il frutto del combinato disposto tra fattori molteplici e diluiti nel tempo, tra i quali un ruolo non da poco l’hanno giocato le politiche commerciali adottate dalle superpotenze: «La Cina negli ultimi 10-15 anni è cambiata e da Paese totalmente dipendente dalle esportazioni verso l’estero è diventato più autonomo. Ha visto crescere la domanda interna e si è resa più indipendente sia in termini produttivi che dei mercati di sbocco, aumentando l’integrazione produttiva e commerciale con gli altri paesi asiatici e creando un hub enorme nel Sud-est asiatico. Gli Usa hanno cercato di frenare i rapporti con Pechino e ridurre i legami commerciali. L’unica area che ha visto aumentare la dipendenza dalla Cina sia come mercato di approvvigionamenti che di sbocco, è stata l’Europa».  Che, adesso, dopo le ripetute supply shock, sta virando verso un accorciamento delle catene del valore e una maggiore regionalizzazione degli scambi.   

Reshoring sì, ma occhio ai prezzi

Su quel che succederà in futuro, anche il Centro Studi di Confindustria, malgrado l’osservatorio privilegiato, ci va cauto: «Molto dipenderà dallo scenario post-conflitto – continua Fontana – avremo da una parte il mondo occidentale più integrato e dall’altro la Cina più integrata con la Russia? Oppure riusciremo a recuperare i rapporti commerciali con la Russia e a mantenere inalterati quelli con la Cina? La questione centrale è politica. Ma non v’è dubbio che la spinta della globalizzazione sia finita e che si vada verso una sempre maggiore regionalizzazione degli scambi, molto concentrati nelle tre grandi macro aree economiche: Nordamerica, Europa e Sud Est asiatico. E il ritorno delle forniture e la rilocalizzazione di attività produttive in Italia ed Europa avranno effetti positivi sull’economia in termini di produzione, occupazione e crescita, anche se la divisione internazionale del lavoro non deve sparire». E le controindicazioni? Per il dirigente di Confindustria non mancheranno nemmeno quelle: «Sul lungo periodo saranno legate ai prezzi. Le catene del valore lunghe come quelle che conosciamo erano basate sullo sfruttamento di differenziale dei costi di produzione tra paesi. In alcune aree del mondo, si riesce a produrre a costi contenuti e questo consente all’impresa occidentale che importa input produttivi, di mantenere il prezzo basso del prodotto. Nel momento in cui le forniture tornano in Europa i costi cambiano e incidono sul prezzo di mercato dei beni». Negli Usa, intanto, però al tema-reshoring sono stati dedicati detrazioni fiscali, crediti di imposta, incentivi, ostacoli normativi all’offshoring. In Francia e UK sono stati introdotti sostegni economici e servizi per favorire il rientro delle aziende. In Italia non sarebbe opportuno supportare le aziende che puntano sull’approccio local-to-local?

«Penso sarebbe importante riportare a casa produzioni strategiche, come quelle della salute – risponde Fontana – durante il Covid abbiamo scoperto che importiamo da paesi lontani tutti i principi attivi dei farmaci. E abbiamo capito che se c’è un blocco della produzione, il principio attivo non arriva e non c’è più la disponibilità del farmaco. Stesso problema per le mascherine. È importante che tornino dunque quelle produzioni che danno al Paese maggiore sicurezza e possibilità di sviluppo. Aggiungerei tra questi anche la la filiera della mobilità sostenibile e l’innovazione tecnologica».