La salute, in fondo, pare l’ultimo dei problemi. A partire dal Pnrr, che la relega in sesta posizione, quella finale, con appena 15,63 miliardi di euro a disposizione, addirittura un quarto di quanto destinato a quella transizione ecologica (59,47 miliardi) di cui ci riempiamo la bocca – salvo poi osteggiarla a suon di ricorsi, veti paesaggistici e sindrome Nimby – che peraltro conta su altri 25,4 miliardi (riservati alla mobilità sostenibile). Più della salute valgono inclusione e coesione, con la loro fetta (del Pnrr) da 19,81 miliardi di euro, per non parlare della digitalizzazione, che da sola assorbe 40,32 miliardi di euro, che è ancora più importante, evidentemente, di istruzione e ricerca, alle quali sono stati destinati 30,88 miliardi.
La lista della spesa insomma, non tiene conto di quel che manca in dispensa. Posti in terapia intensiva, per esempio: stando ai rilievi dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali ne abbiamo appena 8,6 ogni 100 mila abitanti, un quarto di quelli che ha la Germania (che ha accolto i nostri malati nelle fasi acute della pandemia). Ma anche medici: è vero, ne abbiamo 4 ogni mille abitanti (la Germania ne ha 4,3), peccato però che la loro età media sia di 59 anni e la Fimmg, la Federazione italiana dei medici di medicina generale, abbia già annunciato che da qui ai prossimi anni ne andranno in pensione 35.047 e che quasi un quinto dei medici di famiglia sia pronto ad appendere il camice bianco al chiodo. Senza prospettive di ricambio generazionale, peraltro, grazie al numero chiuso a Medicina e al cosiddetto “imbuto formativo” che impedisce di “sfornare quel paio di migliaia di medici di famiglia l’anno che il territorio richiede. Per non parlare degli infermieri: secondo la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) ne mancano oltre 63.000, nonostante nel 2020 sia stata l’unica laurea tra quelle sanitarie che ha visto aumentare le domande di quasi l’8% contro una diminuzione delle altre. Poi c’è la questione della spesa farmaceutica, ancora vincolata alla logica del breve periodo e del prezzo, che anziché farci risparmiare paradossalmente porta a sfondare sistematicamente i tetti di spesa. Ma come si è arrivati a questo punto? Ci siamo messi d’impegno, come sempre.
Questione di budget
Intendiamoci: non è certo colpa del governo Draghi, men che meno del governo Conte bis. «Per nessun Governo nell’ultimo decennio la sanità ha mai rappresentato una priorità politica», sottolinea la fondazione Gimbe nel suo rapporto sul definanziamento del Servizio sanitario nazionale tra il 2010 e il 2019. Dieci anni durante i quali lo “stringere la cinghia”, da tampone alla crisi economica – ricordate il 2008? – si è trasformato in una costante irreversibile. «L’analisi dei Def 2017, 2018 e 2019 dimostra che il rapporto spesa sanitaria/Pil nel medio termine viene sempre rivisto al ribasso, documentando sia la tendenza a spostare in avanti le previsioni di crescita economica, sia la precisa intenzione di non rilanciare il finanziamento della sanità pubblica», specifica Gimbe, che ha calcolato «che nel periodo 2010-2019 alla sanità pubblica sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro, di cui circa 25 tra il 2010 e il 2015, in conseguenza di “tagli” previsti da varie manovre finanziarie e oltre 12 miliardi tra il 2015 e il 2019 in conseguenza del “definanziamento” che ha assegnato meno risorse al Ssn rispetto ai livelli programmati, per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica».
Insomma, giusto in tempo per arrivare alla pandemia, nel 2019, con una spesa pro-capite al di sotto della media Ocse (e altri 15 Paesi europei che investivano di più), un rapporto tra spesa sanitaria (inclusa quella privata, che è il 26% circa del totale) e Pil del 9% (rispetto al 12% di Francia e Germania e 18% degli Usa) e con appena 8,5 posti di terapia intensiva ogni 100.000 abitanti per un totale di 5090 posti, mentre la Germania ne aveva 28.031, cioè quattro volte tanto: 34 posti letto ogni 100.000 abitanti. Siamo al 19° posto su 23 Paesi europei, e non solo per una mera questione di budget. «Se guardiamo al Ssn come ad un paziente, il suo stato di salute è gravemente compromesso da quattro patologie: definanziamento pubblico, ampliamento del “paniere” dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), sprechi e inefficienze, espansione incontrollata del secondo pilastro», afferma l’Osservatorio della fondazione Gimbe. Che mette la ciliegina sulla torta: «L’avvento di Covid-19 ha trovato dunque un Ssn totalmente impreparato alla gestione di una pandemia, fortemente condizionato da 21 differenti sistemi sanitari e da una non sempre leale collaborazione Stato-Regioni – per i quali la sanità rappresenta dal 2001 materia di legislazione concorrente, ndr – e indebolito dall’imponente definanziamento già ampiamente denunciato dalla Fondazione Gimbe».
Problem solving fai-da-te
«Abbiamo un Sistema sanitario nazionale che comparato con gli altri Paesi è molto buono», spiega a Economy Luca Foresti, ceo del Centro Medico Santagostino e ideatore della app Immuni, nonché uno dei commentatori più autorevoli e apprezzati per la visione a 360 gradi del sistema. «È stato generato, però, in anni in cui i bisogni tecnologici e l’organizzazione erano completamenti diversi e non è stato aggiornato a quel che è successo nel frattempo». Per esempio l’invecchiamento della popolazione: «Conti alla mano e a parità di modello, significa aggiungere almeno tra i 2,5 miliardi e i 4 miliardi all’anno di spesa corrente – che dal 2008 al 2019 è rimasta pressoché invariata, ndr – in più. La pianificazione della spesa corrente post-investimenti Pnrr invece va verso una tenuta o addirittura una diminuzione della spesa corrente in rapporto al Pil».
Oltre al danno (economico), la beffa: «è il paziente stesso, abbandonato dal sistema pubblico, a doversi occupare di individuare l’erogatore dei singoli servizi, di prenotarli e di seguire il proprio percorso clinico». Senza contare le liste d’attesa con tempi che fanno apparire i Livelli essenziali di assistenza quantomeno fantasiosi. Così il cosiddetto out of pocket, ovvero i servizi privati pagati di tasca propria, è arrivato a rappresentare – secondo il Cergas (Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale) di Sda Bocconi – il 23% della spesa sanitaria pro-capite in Italia, mentre la spesa privata intermediata, cioè effettuata attraverso fondi sanitari, società di mutuo soccorso e assicurazioni, è solo il 3% circa. «Nel nostro Paese la sanità integrativa ha ancora una quota marginale», sottolinea Foresti «e quindi il secondo pilastro non è ancora la soluzione».
Pubblico e privato, poi, non parlano fra loro: «Il Ssn non ci chiede i dati dei pazienti e viceversa i medici del settore privato non vede le cartelle sanitarie degli assistititi. È un’assurdità. In tutto il mondo i sistemi sanitari hanno una componente pubblica e una privata e i dati sono condivisi. In Italia, invece, il pubblico fa finto che il privato non esista», dice Foresti.
AAA operatori cercansi
Poi c’è il tema – tutt’altro che secondario – del capitale umano: in Italia ci sono 4 medici e 6,7 infermieri ogni 1.000 residenti. «La demografica dei professionisti sanitari è già scritta», sottolinea Foresti: «l’età media dei medici di medicina generale è di 59 anni, ne andranno in pensione una marea e non ne entreranno in numero sufficiente, e anzi con l’invecchiamento della popolazione il numero dovrebbe crescere». Secondo le stime, 1,5 milioni di italiani sono già senza il medico di fiducia e 35 mila andranno in pensione entro il 2027. Insomma: 15 milioni gli italiani potrebbero restare senza medico di base entro 6 anni. «Eppure», prosegue Foresti, «il concetto, sballato, del numero chiuso a Medicina, fa sì arrivino sempre meno persone. Dopo aver accreditato le università e gli ospedali, bisognerebbe lasciare a ogni singola istituzione la decisione sui numeri di posti che vuole aprire, compatibili quindi con la propria dotazione di spazi, docenti e di domanda per quei posti». Il cambio del meccanismo di selezione dei candidati ai corsi di laurea a numero chiuso, tra i quali Medicina, già a partire dal 2022 e in modo più deciso dal 2023 previsto dalla Commissione Istruzione della Camera a metà febbraio garantirà sì un aumento del numero delle ammissioni ai corsi a Medicina, ma solo del 10%, che dovrebbero passare da 14.500 a oltre 15mila già dal prossimo anno. Quanto al test, ci saranno meno cultura generale e più materie tecniche.
Anche gli infermieri scarseggiano: il loro numero è nettamente inferiore alla media europea e oggi ne mancano più di 60 mila, quasi 27 mila al nord, circa 13 mila al centro e 23.500 al sud e nelle isole. Servirebbe 1 infermiere ogni 6 pazienti, la media è 1 ogni 9,5 pazienti, con punte locali di 1 ogni 17-18 assistiti. «Il rapporto con il numero di medici» aggiunge Foresti «è di 1:1, mentre nella maggior parte dei Paesi Ocse è di 1:4. Il fatto è che li paghiamo poco e li utilizziamo male. Bisognerebbe invece creare dei team con una suddivisione dei compiti maggiormente spostata dal lato medico a quello delle professioni sanitarie, come tra oculista e ortottista, o tra fisiatra e fisioterapista. Oggi invece tutto viene fatto dal medico, che dovrebbe solo organizzare, coordinare e occuparsi delle diagnosi complesse. Invece, in scarsità di risorse umane, facciamo come i capponi di Renzo». Per fortuna che c’è il Pnrr, con il potenziamento e la creazione di strutture e presidi territoriali, il rafforzamento dell’assistenza domiciliare (per raggiungere però solo il 10 % degli over 5), la telemedicina… O no? «Il Servizio sanitario nazionale andrà sempre più verso la cura dei malati e l’abbandono dei sani. E il Pnrr non ci salverà: sono solo soldi a investimento, mentre la sanità ha bisogno di spesa corrente. Abbiamo 5 anni per diventare superefficienti, perché poi ci taglieranno i viveri. Ma sappiamo benissimo che questa logica, nel sistema italiano, non funziona».
Facciamo bene i conti
Con un sistema sanitario sbilanciato sempre di più verso la cura dei malati, il valore – non solo economico – della prevenzione aumenta esponenzialmente. «La diagnostica in vitro influenza circa il 70% di tutto il processo decisionale clinico, ma rappresenta oggi solamente circa l’1,2%4 della spesa sanitaria complessiva in Italia», spiega a Economy Francesco Saverio Mennini, professore di Economia sanitaria, nonché direttore dell’Eehta Ceis dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata. Per tradurre il valore di una tecnologia sanitaria in elemento economico, lo strumento è quello dell’Health technology assessment (Hta): «Grazie all’Hta riusciamo portare dinanzi al decisore evidenze in maniera tale che sia in grado di adottare tutti i provvedimenti del caso», chiarisce Mennini. «L’Hta si concentra specificamente sul valore aggiunto di una tecnologia sanitaria rispetto ad altre tecnologie in termini di efficacia sicurezza ma anche di sostenibilità economico organizzativa». Vale anche per la spesa farmaceutica, gravata dal sistema dei tetti di spesa che, sottolinea Mennini «venne adottato perché la spesa farmaceutica era fuori controllo, ma dopo due anni si sarebbe dovuto abbandonare». E invece è ancora la regola. «Sulla spesa farmaceutica servono regole chiare e condivise, che siano in grado di coniugare gli aspetti differenti che caratterizzano la sanità e che superino la logica dei “silos”. I tempi sono maturi: il sistema deve dotarsi di una visione che superi la mera logica del breve periodo e del prezzo, guardando alle sfide che lo attendono nel medio e lungo termine.
È necessaria una revisione importante del meccanismo dei tetti. La ripartizione regionale del finanziamento annuale non dovrebbe determinarsi attraverso una suddivisione a priori dello stanziamento, bensì attraverso un meccanismo di rimborso della spesa effettivamente sostenuta, in analogia con quanto già oggi effettuato nel caso dei farmaci innovativi. Questo approccio risolverebbe diverse criticità: inappropriatezza di tetti di convenzionata e acquisti diretti identici in tutte le regioni, notevole semplificazione nella gestione economica dei farmaci in caso di mobilità inter-regionale di pazienti, semplice riconoscimento di fattori che possono concorrere ad un’inattesa evoluzione della spesa farmaceutica», conclude Mennini. «Se oggi avessimo il tetto dell’assistenza farmaceutica complessivamente fissato nel 2008 del 16,4% (14% territoriale più 2,4% ospedaliera), anziché l’attuale 14,85%, lo sfondamento certificato dall’Aifa nel 2020 di 1,2 miliardi di euro si trasformerebbe in un avanzo rispetto al finanziamento di circa 640 milioni di euro. E quand’anche considerassimo una spesa farmaceutica comprensiva dei farmaci innovativi che accedono ai fondi farmaci innovativi (pur senza incrementare parallelamente il finanziamento di 500 + 500 milioni di euro), lo sfondamento sarebbe pari a un importo simbolico di circa 71 milioni di euro, ben distante dagli sfondamenti di spesa osservati negli ultimi anni».
Intanto, a proposito di farmaci innovativi, forse più per amore della burocrazia che del portafogli si mettono in piedi procedure ingarbugliate come quella per il Paxlovid di Pfizer, che va assunto entro tre, massimo cinque giorni dalla comparsa dei sintomi, dopodiché diventa inutile. Peccato che ci vogliano due giorni per avere l’esito del tampone, dopodiché bisogna riuscire a farselo prescrivere dal medico di base – ammesso di riuscire a ottener udienza in tempo utile – il quale dovrà a sua volta contattare il reparto di malattie infettive dell’ospedale, che può (finalmente) prescrivere e somministrare il farmaco.
Piani welfare “a misura d’uomo” una nuova sfida per le aziende
di Francesco Bruno*
«Le imprese ottengono risultati migliori quando sono consapevoli del loro ruolo all’interno della società e agiscono nell’interesse dei loro dipendenti, clienti, comunità e azionisti»: è questo uno dei passaggi-chiave della lettera che Larry Fink, amministratore delegato di Blackrock, ha di recente indirizzato ai ceodi tutto il mondo.
Una conferma ulteriore della crescente importanza della “S” di “Societal” all’interno dei criteri Esg, dove spesso il focus è quasi esclusivamente sulla pur fondamentale e urgente “E” di “Environmental”.
In quest’ottica, uno dei più importanti insegnamenti appresi negli ultimi due anni riguarda la centralità delle persone.
In uno scenario ancora caratterizzato dall’incertezza, la salute e il benessere della forza lavoro rappresentano un asset strategico e sempre più centrale per le imprese, che devono saper valutare un approccio integrato volto all’ottimizzazione dei parametri della Workforce Health.
Diversi studi dimostrano infatti come azioni concrete in tale direzione trovino immediato riscontro in un minore impatto del ricorso alle cure mediche, con un conseguente effetto positivo sulla valutazione dell’asset aziendale primario: le persone. Valutazione che deve basarsi su metriche in grado di misurare parametri come assenteismo, produttività, capacità di attrarre talenti e mantenerli in organico: valori fondamentali per sostenere le politiche di sostenibilità interna. L’effetto di queste buone pratiche è positivo sia per l’azienda che per i lavoratori, per i quali è oggi sempre più importante lavorare in realtà che tengano in primo piano politiche di health e well-being. Lo dichiara il 61% degli intervistati nel nuovo report Health on Demand: i benefit che i dipendenti vogliono di Mercer Marsh Benefits.
Il 49% di essi preferisce operare là dove il datore di lavoro si prende cura della salute e del benessere finanziario di tutti i propri dipendenti, mentre il 36% guarda con favore alle organizzazioni che tengano nella dovuta considerazione tematiche di equità sociale e di protezione dell’ambiente.
Le aziende lungimiranti hanno dato dimostrazione di comprendere in maniera concreta il legame tra benessere, esperienza dei dipendenti e prestazioni aziendali complessive. Mettere al centro le persone” non deve quindi più essere solamente una dichiarazione di intenti, ma un impegno reale e foriero di un vero e proprio cambio di paradigma. Ripensare il proprio welfare aziendale come frutto di una visione olistica del benessere delle proprie persone, modellandolo sulle necessità del singolo e offrendo alla forza lavoro dei piani di benefit così disegnati potrà fare la differenza e creare un vantaggio competitivo negli anni a venire.
*Head of Employee Health & Benefits, Marsh Italia