«Non può continuare ad esistere un sistema che consente alle multinazionali di operare sfruttando le infrastrutture e i servizi pagati dai cittadini, senza dare il proprio contributo attraverso il pagamento delle tasse nei paesi ove viene prodotto il valore». L’attacco diretto del presidente Roberto Rustichelli ai giganti della Rete è stato il messaggio centrale di un discorso, quello pronunciato al Senato in occasione della relazione sulle attività dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, quasi tutto incentrato sul digitale e sulle sue distorsioni.
«Sono attualmente in corso tre istruttorie – ha ricordato Rustichelli – rispettivamente nei confronti di Amazon, per un presunto abuso di posizione dominante nell’ambito della fornitura ai venditori terzi dei servizi di intermediazione per la compravendita di beni e servizi sulla piattaforma Amazon.it, nonché dei servizi di logistica; nei confronti di Google, per un presunto abuso di posizione dominante consistente nell’uso discriminatorio della mole di dati raccolti attraverso le proprie applicazioni, che impedirebbe ai concorrenti di competere in modo efficace nel mercato della pubblicità online; nei confronti di Apple e Amazon per una presunta intesa restrittiva della concorrenza, volta ad escludere dal marketplace di Amazon i rivenditori di elettronica che commercializzano legittimamente i marchi Apple e Beats».
Google, Apple, Amazon: uno dietro l’altro, giusto per ricordare chi sono i “Leviatani” e per ribadire che il futuro del mercato unico europeo passa dalla «necessità di rafforzare la competizione e l’equità nei mercati digitali e da una maggiore protezione delle imprese e dei consumatori nei mercati digitali nei quali le piattaforme sono ormai divenute uno snodo fondamentale per gli utenti commerciali che intendono raggiungere i consumatori online e alcune di esse sono arrivate a godere di un potere di mercato consolidato e duraturo, che conferisce loro la facoltà di agire slealmente nei confronti dei soggetti che con esse si interfacciano». Con il risultato, ha chiosato il Presidente dell’Antitrust, che «la concorrenza ne risulta spesso compromessa».
«È, dunque, apprezzabile l’iniziativa assunta dalla Commissione Europea nel dicembre 2020 con le proposte del Digital Markets Act e del Digital Services Act – ha aggiunto ancora – o di fronte a monopoli dai tratti così inediti e non sempre agevolmente contrastabili con i tradizionali strumenti antitrust, è positivo che si apra lo spazio della regolazione, terreno sul quale l’Europa ha alle spalle una importante tradizione. Tuttavia, l’attuale testo del DMA presenta ampi spazi di miglioramento e, a tal fine, l’Autorità ha ripetutamente evidenziato numerose criticità: il digitale non è un settore ma una tecnologia che pervade tutta l’economia, per cui è discutibile un approccio one size fits all, con l’introduzione di regole uguali per tutti di fronte a modelli di business molto diversi; inoltre, la nuova disciplina privilegia un modello di enforcement centralistico, imperniato sulla competenza esclusiva della Commissione. Questo, voglio dirlo con chiarezza è un grave errore».
Rivedere “le regole uguali per business diversi” e restituire centralità alle Autorità nazionali dunque ma non solo: Rustichelli ieri nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, davanti al Presidente del Senato e al vicepresidente della Camera Ettore Rosato, ha posto l’accento sul “dumping fiscale”: «La concorrenza fiscale sleale tra Stati membri costituisce uno dei più gravi fattori di distorsione di quel level playing field, che è a fondamento di una competizione equa – ha dichiarato – il danno arrecato agli Stati che producono valore dal dumping fiscale posto in essere da taluni Paesi europei, divenuti oggi dei veri e propri paradisi fiscali con l’euro, si è ancor più aggravato».
I dati della Relazione Annuale dell’Antistrust dicono che sono 27 i miliardi realizzati nel 2018 in Italia dalle multinazionali e spostati nei paradisi fiscali europei; 40 quelli spostati dalla Francia; 71 i profitti sottratti alla tassazione in Germania. E a beneficiarne quasi sempre sono sei Stati: Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta, mentre l’Europa è la principale vittima dell’elusione delle grandi società, con oltre il 35% dei profitti spostati dal Vecchio Continente, a fronte di meno del 25% dagli Stati Uniti.
«Il persistere di tali fenomeni – sono state ancora le parole di Rustichelli – contrasta in radice con il principio di solidarietà voluto dai Padri fondatori dell’Unione Europea e rischia di compromettere il progetto europeo. Sul terreno della concorrenza fiscale, peraltro, il vertice del G20 tenutosi a Venezia lo scorso luglio si è concluso con un accordo di massima che prevede l’introduzione di una global minimum tax pari ad almeno il 15%. Sebbene tale accordo rappresenti un passo avanti nel contrasto al comportamento delle multinazionali che oggi possono liberamente spostare i profitti nei paradisi fiscali, esso non risolve fino in fondo il problema della concorrenza sleale all’interno dell’Unione Europea. Non lo risolve né dal punto di vista etico, poiché continuano ad esistere Paesi europei che, in assenza di regole comuni, abusano della propria autonomia fiscale, né dal punto di vista dell’enforcement, poiché sarà difficile applicare in modo uniforme la nuova imposta a causa della mancata standardizzazione dei criteri di calcolo della relativa base imponibile».
Il numero uno dell’AGCM si è soffermato anche sul PNRR ma in chiave critica, in particolare sulla lentezza e le storture burocratiche che rischiano di ingessare i cantieri e frenare le opere: «Occorre riconoscere che le incognite sulla attuazione del Piano – ha puntualizzato – sono molte, a partire da un quadro normativo ipertrofico che fa da freno agli investimenti. È sufficiente ricordare che nel nostro Paese il tempo medio di realizzazione delle opere pubbliche, il cui costo supera i 50 milioni di euro, risulta pari a circa 14 anni. Il rischio, dunque, è che gli ingenti flussi di risorse previsti dal PNRR non riescano a tradursi tempestivamente in opere pubbliche, quindi in investimenti e in infrastrutture. La corruzione, d’altra parte, continua ad essere un fenomeno radicato che va combattuto con forza, in quanto rischia di condizionare la nuova fase, tenuto conto che una parte significativa delle risorse passa attraverso procedure ad evidenza pubblica.
Se si considera che oggi il 74% dei procedimenti in materia di corruzione riguarda il settore degli appalti pubblici, in particolar modo le procedure di gara (82%), piuttosto che gli affidamenti diretti (18%), una riflessione urgente si impone. Tutto questo dimostra che il Codice dei contratti pubblici, che pure è stato modificato numerosissime volte, non solo non è stato in grado di contribuire a ridurre gli illeciti, ma rischia altresì, con le sue farraginosità e complicazioni, di ostacolare il conseguimento degli ambiziosi obiettivi assegnati al nostro Paese. Per questo l’Autorità ha richiamato con forza la necessità di semplificare la normativa vigente in un settore che rappresenta l’11% del PIL nazionale». Parole decise che hanno fatto da preludio a un appello finale: «In generale, l’Autorità ritiene che un cambiamento culturale sia necessario. Troppo spesso, in nome di una malintesa cultura della legalità, ci si affida alla formulazione di nuove regole come argine rispetto al rischio di comportamenti illeciti. In realtà, l’elefantiasi normativa si traduce in una moltiplicazione dei luoghi e delle occasioni di corruzione. Il mercato necessita di poche regole, chiare e proporzionate».