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Lo chef Lo Basso (una stella Michelin dal 2011), dall’alto del suo ristorante sul Duomo, fa il controcanto ai colleghi e mette in guardia: «mafie in agguato»

 

Di Francesco Condoluci

 

«Il business lunch? No, grazie. Non ci penso nemmeno». Felice, “Felix”, Lo Basso da Molfetta, ha una stella Michelin appuntata sul petto e pochi peli sulla lingua. Lui, a quelle che chiama «certe mode tutte milanesi», è allergico. E non per una questione di spocchia. Ma per un ragionamento che potrebbe essere preso in prestito per una lezione di microeconomia (in salsa pugliese) sull’elasticità o meno dei beni.

«A Milano – dice – ci sono 10 mila locali e circa 1,5 milioni di abitanti. Non siamo in una metropoli. Quelli che girano per i ristoranti, e parlo degli stellati, sono sempre gli stessi. Non è che abbassando il prezzo, si aumenta il numero dei clienti, e così si riesce a stare in piedi. Io ad esempio punto a fare 10 coperti da 300 euro e non 60 da 50. Chi ha soldi da spendere viene da me e paga la qualità, anche delle materie prime, e senza sconto. Mi spiego?».

Racconta che quando è sbarcato a Milano, nell’anno di Expo, all’Unico (il ristorante al 20° piano della scintillante WJC Tower in zona Portello) i suoi nuovi soci gli hanno subito parlato di un menù-pranzo a 25 euro. «Li ho guardati: ma siete matti? Come fai a far pagare 25 euro il pranzo e 150 la cena? Che facciamo: di giorno diamo da mangiare zucchine marce e la sera quelle buone? No, scusate, se il ristorante è lo stesso, il personale è uguale, la materia prima pure, è una presa in giro far pagare poco chi viene a pranzo e tanto chi viene a cena. È poco corretto nei confronti della clientela serale».

Dall’Unico, questo chef che s’è fatto da solo – partendo dalla Puglia per arrivare in Lombardia, dopo essere passato da Rimini e Val Gardena – è approdato un anno fa sulla terrazza più esclusiva di Milano, quella con vista sulla Madunina, al piano più alto del lussuoso TownHouse Hotel aperto da Alessandro Rosso Group. Una location, quella del “Felix Lo Basso Restaurant”, scelta perché il panorama, da solo, vale qualunque prezzo e perché qui, ammette lo chef, «si può puntare a una clientela da 300 euro a persona». «Io, ogni mattina – aggiunge – non appena apro la porta, solo di costi fissi, vado a meno 1.500 euro. Per il mio break even dovrei incassarne 5 mila al giorno. Ma mica ci riesco tutti i giorni!

 

Pentito di aver accettato la sfida?

No, perché questo ristorante è il più bello di Milano e oggi la location incide per il 70% sulla scelta del cliente. E poi perché comunque, ho il mio ritorno. Diversamente da tanti locali in città che, al di là dell’apparenza, sono in debito d’ossigeno. Qui, con la ristorazione non diventi ricco. Ci sono troppi ristoratori improvvisati e troppe concessioni comunali a chi non è del mestiere. Ecco perché fanno la guerra dei prezzi. Una guerra al ribasso.

 

Eppure Milano è “la capitale del gusto”…

Tutta fuffa, credimi. In questa città la ristorazione è molto “pompata” dai media, siete voi giornalisti ad esaltare certi locali e certi personaggi, magari solo perché sono vostri amici.  Si fanno un sacco di eventi inutili, tutte copie conformi. Fuori è diverso, fare ristorazione è un’altra cosa. Vi siete mai chiesti perché nessuno chef di fama mondiale apre a Milano? Perché non c’è business e perché questa città, rispetto al mondo, è indietro di 20 anni. Come si fa a chiudere la metro a mezzanotte?

 

Ma nemmeno la stella Michelin aiuta? 

Be’, a me di sicuro ha cambiato la vita. Il problema è mantenerla: devi tenere sempre un certo livello e questo costa parecchio. Ecco perché non posso scendere sotto certi standard.

 

E chi non ha il ristorante al Duomo come fa? 

Mah, se i muri sono di proprietà, se il locale è a conduzione familiare, allora puoi anche stare dentro le spese. Che qui a Milano, ripeto, sono folli. Gli affitti sono alle stelle, si paga a 180 giorni e con assegni post-datati. Ripeto: pochi guadagnano davvero. E poi non puoi crescere perché se assumi personale, il fisco ti massacra. Ecco perché la mafia ha buon gioco…

 

Che vuoi dire? Che i ristoranti di Milano sono in mano alla criminalità organizzata? 

No, non tutti. Ai livelli più alti, anzi, è quasi impossibile. Dove lo chef è patron, la mafia non entra: ma ce ne sono tantissimi in mano alla camorra. So di locali che pagano 40 mila al mese di affitto. Quanto dovrebbero fatturare all’anno: 3 milioni? È fuori dalla realtà. Con Expo, qui sono arrivati i soldi della camorra. E se vai in difficoltà, visto che lo Stato non ti aiuta, fai presto a finire nelle loro mani».