C’è la rete “locale” in Valtellina che mette insieme un centinaio tra piccoli produttori e pubblici esercizi per valorizzare il “km zero” di qualità e c’è quella “tematica” come Ribes che raggruppa imprese biomed da tutta Italia per rafforzarne il potere contrattuale e migliorarne il rating nell’accesso al credito. A 7 anni dalla loro introduzione, i “contratti di rete” – pensati per progetti d’investimento comuni tra più soggetti imprenditoriali e finalizzati ad accrescerne potenziale d’innovazione e capacità competitiva – hanno visto nascere oltre 4 mila programmi comuni e aggregato, attorno a un piano di condivisione di risorse finanziarie e umane per supportare investimenti e strategie di espansione, più di 19 mila imprese (fino al 30 giugno 2017). Accolte tiepidamente alla loro nascita dal mondo produttivo, negli ultimi anni le Reti d’Impresa hanno assunto invece i contorni di un fenomeno macroeconomico a tutti gli effetti.
Lombardia, Lazio e Veneto sono le regioni con il maggior numero di imprese in rete: 14,9%, 10,3% E 9,5% le loro quote sul totale in rete
Secondo il rapporto Istat-Confindustria, sempre al primo semestre dell’anno scorso il fatturato delle aziende italiane in rete aveva toccato quota 89 miliardi (e 20 di valore aggiunto). Merito della snellezza di uno schema giuridico che, a differenza di altri analoghi come consorzi e joint-venture, lascia ai contraenti autonomia decisionale sia nei contenuti del progetto che nelle regole e non impone loro la costituzione di un soggetto autonomo. A fare il resto ci pensano i vantaggi finanziari, amministrativi e competitivi connessi alla stipula dei contratti di rete. E sul piano dell’impatto occupazionale, la comparazione con le imprese “non in rete” dice che quelle aderenti a un contratto hanno registrato una migliore dinamica superiore di 5,2 punti percentuali ad un anno, di 8,1 a due e di 11,2 a tre.