Un regalo storico ai Cinquestelle, o a quel che ne resta, ossia un miscuglio disperso e confuso di parlamentari in massima parte capitati per caso in politica e nelle Camere, che come canto del cigno avranno il piacere di essere determinanti nella nomina di una figura chiave delle nostre istituzioni, come il presidente della Repubblica, destinato a pesare sulle sorti del Paese per sette anni; un torto verso gli italiani che tra quindici mesi eleggeranno un nuovo parlamento profondamente cambiato nella sua struttura, perché composto da un terzo di elementi in meno, sapendo che questi nuovi eletti non potranno scegliersi il capo dello Stato, che sarà stato già nominato dai loro predecessori un anno prima; e uno sgambetto sia al Pd che a Mario Draghi, ossia alla forza politica meno contraddittoria (anche se amorfa e debole) del panorama attuale e al leader che per la prima volta dopo 25 anni ha restituito al Paese una buona immagine mondiale ed ha fronteggiato valorosamente le due sfide drammatiche del 2021, la campagna vaccinale e l’approvazione del Pnrr.
Sono questi i tre effetti nocivi della scelta, ormai formalizzata, che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto di escludere la propria ricandidatura. Approfondiamoli.
Quando l’anno prossimo, tra gennaio e febbraio, il Parlamento inizierà a votare sul rinnovo del Quirinale, un ruolo chiave nelle schermaglie politiche l’avranno i 237 Parlamentari eletti nei Cinquestelle e rimasti fedeli al Movimento, diversamente dai loro oltre 100 colleghi che hanno cambiato casacca. Inoltre, nel 2018 il M5S raccolse alle politiche il 32,6% dei consensi, mentre alle ultime amministrative – consultazione diversa, ma indicativa del sentimento degli italiani, si fermerebbe al 18%. Anche la Lega scenderebbe, stando ai sondaggi, alla metà circa dei consensi del 2018. E insomma lasciando a questo Parlamento il compito di scegliere il prossimo presidente della Repubblica si offre un premio inaspettato all’inconsistenza dei Cinquestelle, ai quali non ricapiterà mai più di avere altrettanto peso politico.
Inoltre, il Parlamento ridimensionato numericamente che uscirà dal prossimo voto politico nascerà privo della possibilità di esprimere il presidente della Repubblica, che sarà già stato eletto un anno e prima e per i successivi sette anni: certo, è questa un’evenienza insita nell’ordine naturale delle cose, la Costituzione non stabilisce un nesso di tempi e ruoli tra Parlamento e Quirinale, ma il prossimo Parlamento sarà diversissimo da tutti quelli precedenti e avrebbe avuto un senso tenerne conto. Come? Appunto contando sul fatto che Sergio Mattarella si riservasse di compiere a sua volta la scelta di dimettersi dopo le prossime politiche per lasciare al Parlamento riformato la scelta di un successore vero, qualcosa di analogo alla scelta fatta da Giorgio Napolitano otto anni fa, accettare una rielezione formalmente settennale con la riserva mentale di dimettersi appena il quadro politico l’avesse consentito; cosa che Napolitano fece al termine del semestre italiano di presidenza dell’Unione europea, all’evidenza che la riforma istituzionale in discussione non avrebbe potuto essere approvata e quindi era inutile attendere ancora e all’indomani della testimonianza al processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia che l’aveva lambito e che si è rivelato panna montata.
Vi è da dire pure che Mattarella non è Napolitano. Accomunati solo dal ruolo e, a grandi linee, dallo schieramento che li ha fatti ascendere l’uno dopo l’altro sul Colle, l’attuale Capo dello Stato e il suo predecessore sono diversi come il giorno e la notte. Decisionista, forgiatosi nel vecchio PCI in quell’ala migliorista – che strizzava l’occhio al capitalismo e al dialogo coi moderati – di cui fu il più illustre esponente, il secondo è passato alla storia
come “Re Giorgio” giusto a sottolineare l’aspetto interventista per vocazione della sua presidenza. Democristiano di ferro, cattolico, costituzionalista ortodosso e, da buon siciliano, più incline ai silenzi che alle parole in libertà, Mattarella si è ritrovato suo malgrado, in questa legislatura, a dover gestire – stante il vuoto pneumatico dei partiti attorno a lui – un protagonismo al quale con ogni probabilità avrebbe rinunciato più che volentieri. Per cui in fondo in fondo non sorprende che alla prospettiva di prolungare un settennato già vissuto pericolosamente tra maggioranze inedite, CoVid, lockdown e crisi di governo, preferisca l’oblio della senescenza.
Infine, Draghi e il Pd. Il primo a questo punto non potrà essere mandato al Quirinale, perché alle sue spalle questo governo di solidarietà attaccato con lo sputo e tenuto insieme solo dal prestigio del premier che ci guida, andrebbe gambe all’aria e si aprirebbe per il Paese una fase di vertiginosa turbolenza; il secondo dovrà trovare precipitosamente un candidato alternativo a Mattarella per il Colle, che adesso non ha, e su di esso dovrà trattare alla pari con gli altri due blocchi prevalenti, Cinquestelle e Centrodestra, che tra un anno, verosimilmente, saranno molto più deboli.
Tutto ciò detto, e paradossalmente, la scelta rigorosa e “regolamentare” di Mattarella oltre che comprensibile, è in fondo la più giusta.
Come scrive Dante, “lascia pur grattar dov’è la rogna”, cioè sprona il Paese e i suoi politici a guardare in faccia la realtà, per imbarazzante che sia, e a dirsi la verità. Questo Parlamento non più rappresentativo dovrebbe proprio per questo convergere e al più presto su una figura credibile e davvero sopra le parti, capace di rappresentare il Paese oggi e domani, dopo le future politiche; che potrebbe essere dunque lo stesso Draghi: ma allora i partiti dovrebbero essere contestualmente capaci di proseguirne l’azione di governo con un successore coerente per quest’ultimo anno di legislatura, senza approfittare – come fa una classe di alunni indisciplinati – della debolezza che qualunque insegnante supplente patisce rispetto al titolare.
Ma è pensabile che questi partiti e questi leader sappiano concordare una linea così nobile? Figuriamoci