Se c’è una cattiva notizia, finire sui giornali è un attimo. Provateci però quando volete comunicare qualcosa di positivo sulla vostra azienda: un nuovo progetto, un’acquisizione, una nomina. È tutt’altro che semplice. Il motivo? In Italia, tra quotidiani, settimanali, mensili, radio, tv, siti di informazione online, secondo il Centro di Documentazione Giornalistica, le testate ufficialmente registrate sono 3.444. Sembrano tante, ma le agenzie di comunicazione e ufficio stampa che le assediano sono molte di più: 5.633. Poi ci sono la miriade di uffici stampa interni ai quasi 13 mila enti pubblici, alle oltre 1,6 milioni di imprese, alle 360 mila no profit… Sono 10.350 i professionisti che svolgono attività di ufficio stampa e 10.371 i comunicatori e marketer. Insomma, la concorrenza è agguerrita, e distinguersi fra la miriade di comunicati stampa, mail, telefonate, messaggi che ogni giorno – festivi compresi – e a ogni ora arrivano ai giornalisti è tutt’altro che semplice. Ci si inventa di tutto, si consultano manuali di comunicazione, si elaborano teorie… ma forse si farebbe prima a chiedere direttamente ai giornalisti di cosa hanno (o non hanno) bisogno. 

Come si sono presi la briga di fare Valentina Brini e Simone Trebbi, due professionisti delle pubbliche relazioni, con la loro rubrica social (su Instagram e LinkedIn) “PRova a scrivermi”, «nata – spiegano a Economy – con un obiettivo preciso: creare un ponte tra professionisti di pubbliche relazioni e giornalisti. I professionisti dell’informazione che hanno risposto al nostro appello sono tantissimi, segnale di una necessità sempre più urgente di trovare una sintesi collaborativa efficace tra due figure di estrema importanza».

All’appello hanno risposto decine di professionisti della carta stampata, della tv, della radio, delle testate online. Segno che qualcosa, nella relazione tra media e PR, deve cambiare. «La figura del PR – o addetto stampa – è spesso vista come quella di un professionista che ha come obiettivo finale ottenere pubblicazioni per i propri clienti e a tutti i costi», chiarisce Valentina Brini. «In realtà, il focus primario di chi fa pubbliche relazioni è proprio quello di creare un network, una sorta di connessione con i giornalisti e professionisti dell’informazione. Questa parte umana, non può mancare. Questo significa saper entrare in contatto con loro; ascoltare le loro esigenze e capire i processi di lavoro quotidiani che, diciamolo, sono cambiati e continuano a cambiare molto rapidamente. In più, ogni testata è diversa dall’altra e ogni giornalista ha esigenze diverse». Non solo: «Uno dei falsi miti delle PR è sicuramente quello di dover telefonare e chiamare a qualsiasi ora per poter catturare l’interesse di un giornalista. In realtà, grazie a questa rubrica, è emerso che la maggior parte dei giornalisti intervistati non gradisce particolarmente ricevere chiamate durante il flusso di lavoro quotidiano e, soprattutto, non ama essere contattato e rincorso ad ogni orario del giorno. Penso che questo sia davvero un punto fondamentale da tenere in considerazione. La figura del PR non può più essere vista e vissuta come quella di un professionista assillante o disturbatore; piuttosto come un valido alleato nello sviluppo di una notizia o di un approfondimento. E per ottenere questo, è fondamentale che i PR contemporanei imparino a stabilire il giusto equilibrio tra lavoro e vita privata. Rispettare il lavoro e le esigenze altrui, è alla base ed è chiaro che chiamare ad ogni occasione il giornalista, non sia più la strategia perfetta. Lavorare su un contenuto in esclusiva; riuscire a pitchare la propria proposta in modo educato e coinciso, sì».

«L’assenza di un dialogo attivo con i professionisti dell’informazione, cercando di capire quali siano le loro reali esigenze anziché mettere in atto un’azione comunicativa troppo simile alla vendita, ha reso l’attività dei PR spesso (e comprensibilmente) poco gradita», aggiunge Simone Trebbi. «Ciononostante, ed è sorprendente, tutti i giornalisti intervistati hanno concordato su questo aspetto: il ruolo strategico dei comunicatori aziendali viene percepito come più importante che mai.

E, se interpretato nel modo giusto, può rivelarsi un alleato prezioso per chi opera in ambito giornalistico. Inoltre, la presenza di numerose risposte comuni è sintomatica di come ad essere antiquata non sia la professione del PR in sé, ma il modo in cui viene svolta quotidianamente. 

Un esempio su tutti è quello degli errori più comuni che i giornalisti, sommersi ogni giorno da un numero inquantificabile di mail, riscontrano in maniera pressoché univoca. La scarsa conoscenza della testata a cui ci si rivolge, l’invio di mail a persone che non coprono la tematica proposta, l’autoreferenzialità, l’approccio tipico del marketing e le telefonate sono approcci errati evidenziati da tutti i giornalisti che hanno partecipato al progetto. Errori che, se ripetuti su base quotidiana come purtroppo avviene, vanno a detrimento dell’intera categoria e rischiano di minare un rapporto che può invece rivelarsi costruttivo e persino indispensabile per entrambe le parti».

La lezione? «L’invio massivo di mail non è mai stata una soluzione, ma oggi è addirittura un’azione suicida. Il futuro delle PR risiede nella personalizzazione estrema della comunicazione, cosa che presuppone una conoscenza del giornalista, della testata per cui lavora, delle sue esigenze specifiche e, non ultima, l’abilità di saper cucire ogni notizia su misura. Un lavoro certamente non facile, ma indispensabile e che richiede grande professionalità. I PR dovranno essere bravi nel trovare una sintesi tra le esigenze dei media e quelle delle imprese che rappresentano».