Quel numero magico (fifty/fifty) che porta alla dissoluzione dell’impresa

In Italia circa il 10% delle società hanno un capitale suddiviso al 50% tra i soci (164.000 le SRL e 1316 le SPA): un numero impressionante se si pensa che – tecnicamente parlando – non c’è una ragione specifica perché questo avvenga ed anzi ce ne sarebbero diverse per evitare una partecipazione paritetica. 

Questo numero magico (fifty/fifty) alla fine però mette tutti d’accordo perché nessuno vince, come in una sorta di tiro alla fune dove, in fondo, i contendenti depongono in terra la corda arrendendosi entrambi. Così facendo, però, i soci modificano uno dei principi cardine del nostro ordinamento in termini di decisioni collegiali rinunciando al principio della maggioranza per scegliere viceversa quello dell’unanimità; l’ulteriore conseguenza, spesso questa ignorata, è che poiché la “impossibilità di funzionamento o per la continuata inattività dell’assemblea” è oramai, post riforma del diritto societario del 2003, una causa di scioglimento delle società (art. 2484 c.c. primo comma, n.3), in caso di stallo decisionale dovuto al meccanismo della unanimità, l’unico sbocco possibile è quello dello scioglimento della società, azionato, a seconda dei casi, dai soci o dagli stessi amministratori (in giurisprudenza, vedi da ultimo Trib. di Milano, sez. imprese, 21 giugno 2019, n. 1752). Appare dunque fondamentale ragionare sulle soluzioni che possano, in caso di stallo, risolvere la crisi di governance senza per forza procedere con lo scioglimento 

(e a volte il fallimento) della società.

Ebbene, una di queste soluzioni è la cosiddetta Russian roulette clause detta anche Texas shoot-out clause o Savoyclause, tornata di recente in auge grazie ad una sentenza del tribunale di Roma del 2017 e poi ancora, a fine luglio 2019, ad una deliberazione del Consiglio notarile di Milano.

Con la Russian roulette clause i soci stabiliscono che al verificarsi di un determinato evento (stallo decisionale, mancato rinnovo dei patti parasociali, ecc.) una delle due parti possa comunicare all’altra il prezzo al quale colui che riceve questa offerta (cosiddetto socio oblato) possa, a sua scelta, vendere il proprio 50% oppure, allo stesso prezzo comprare la partecipazione dell’altro socio “proponente”. Ci sono poi diverse varianti della clausola, una delle quali, la più nota, è che la possibilità di azionare questo processo sia data ad entrambi i soci e dunque ci sia una sorta di sfida all’Ok Corral: il primo che al momento dell’avverarsi della condizione invii la proposta all’altro determina il prezzo al quale il ricevente può vendere la propria o comprare quella del socio offerente.

La clausola, chiaramente di origine anglosassone, trova la propria ragionevolezza nella famosa frase del giudice Easterbook secondo il quale: “The possibility that the person naming the price can be forced either to buy or to sell keeps the first mover honest” (United States Court of Appeals, Seventh Circuit, caso Valinote v. Ballis, 26 giugno 2002). Non pochi però sono i problemi che si sono posti allorquando si è cercato di trasporre nel nostro ordinamento (nei patti parasociali o negli statuti) questo strumento di risoluzione dello stallo decisionale, non dissimili da quelli affrontati nel valutare le più famose clausole di drag along e tag along.

Quel che qui interessa sottolineare è che la conclusione del tribunale di Roma su citato è stata invero articolata: se è vero che non può ravvisarsi all’interno del diritto societario alcuna norma imperativa che vieti o renda illegittima ex ante una clausola anti-stallo del tipo della roulette russa, anche nel caso in cui la parte titolare del potere di determinare il prezzo non sia soggetta ad alcun criterio obiettivo da seguire, è altresì vero che la stessa non deve essere strutturata in maniera tale da portare necessariamente ad una determinazione iniqua. 

Non dissimile, ma forse più prudente, è stato l’approdo dei notai meneghini (Massima del Consiglio Notarile di Milano n. 181/2019) i quali hanno affrontato il medesimo problema ma valutando l’ipotesi di inserire queste clausole direttamente all’interno degli statuti (e non solo nei patti parasociali).  La conclusione è stata nel senso che il principio della equa valorizzazione delle partecipazioni sociali rimane un limite invalicabile in tutti casi di exit forzata tanto che si potrebbe dire che l’autonomia statutaria incontri un limite incalicabile nella necessità di garantire al socio uscente una equa valorizzazione alla stregua delle norme stabilite per il caso di recesso legale.

Tornando dunque all’interrogativo dal quale siamo partiti, ossia come tentare di non far spezzare quella corda che si tende in caso di crisi di governance, forse una prima risposta che può essere data è che, se proprio non si riesce a resistere al fascino del magico numero 50/50, è bene che almeno si ponga rimedio ai rischi di dissolvimento della società e si mettano in atto gli strumenti che oramai ci sono e che sono stati analizzati da dottrina, giurisprudenza e ordini professionali.

* Avvocato, dottore di ricerca in diritto commerciale