Quando la cedolare secca avvelena il mercato immobiliare

Quando si dice l’eterogenesi dei fini di un provvedimento legislativo pensato e scritto (quando al ministero delle Finanze c’era un professorone come il ministro Tremonti e al ministero della Semplificazione il callido Calderoli, il più abile nel cosiddetto “law making” e lo s’è visto, infatti, con la sua legge elettorale definita elegantemente “Porcellum”), pensato e scritto – dicevamo – per fluidificare il mercato immobiliare e cancellare l’eterna pratica degli affitti in nero.

Stiamo parlando della cosiddetta “Cedolare secca” introdotta con un decreto legislativo del 2011 (governo Berlusconi con i rispettabili ministri sopracitati) che sotto l’elegante rubrica di “Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale” (tra i firmatari del provvedimento c’è anche Umberto Bossi, il Senatur, all’epoca ministro per la riforma, federale si capisce, dello Stato) introduce un nuovo sistema per regolare la partita tra proprietari di case e amministrazione tributaria.

Fino a quel momento la regola aurea, diciamo così, era il nero: ci si limitava a concordare un canone, a sottoscrivere (nella migliore delle ipotesi) una scrittura privata tra proprietario e inquilino e via. L’inquilino pagava, sempre in nero e quindi cash senza poter scaricare il canone – in tutto o in parte – dalla sua dichiarazione dei redditi.

Il proprietario (spesso di più appartamenti) incassava e dichiarava zero al Fisco. Certo, se l’inquilino non pagava erano dolori, a meno che non ci si fosse cautelati, come facevano i più abili, con una fidejussione o con un congruo versamento di mensilità anticipate. In caso contrario bisognava ricorrere al giudice civile e portare le prove (inesistenti) del contratto di locazione.

Con la cedolare secca, ecco la svolta per dirla nella neolingua renziana (all’epoca l’ arrembante Matteo era sindaco di Firenze), anzi la rivoluzione.

Tra le “Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale”, infatti, ce n’è una che consente ai proprietari di case che affittano in chiaro, cioè con regolare contratto, di pagare un’imposta ridotta, anzi ridottissima, sul canone: il 21% o addirittura il 10% in caso di “canone concordato”, il vecchio equo canone di sessantottesca memoria (ma introdotto nel 1978) nelle aree “ad alta tensione abitativa”, in pratica tutte le grandi città.

Per essere precisi riportiamo definizione e regole dal sito dell’Agenzia delle Entrate: “La cedolare secca è un regime facoltativo, che si sostanzia nel pagamento di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali. In più, per i contratti sotto cedolare secca non andranno pagate l’imposta di registro e l’imposta di bollo, ordinariamente dovute per registrazioni, risoluzioni e proroghe dei contratti di locazione. La cedolare secca non sostituisce l’imposta di registro per la cessione del contratto di locazione”.

Non solo. L’Agenzia delle Entrate chiarisce che: “La scelta per la cedolare secca implica la rinuncia alla facoltà di chiedere, per tutta la durata dell’opzione, l’aggiornamento del canone di locazione, anche se è previsto nel contratto, inclusa la variazione accertata dall’Istat dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati dell’anno precedente”.

Poi avverte: “Attenzione: è possibile optare per la cedolare secca sia alla registrazione del contratto sia negli anni successivi, in caso di affitti pluriennali”.

Ma la cedolare secca è per tutti? No, l’Agenzia delle Entrate spiega chiaramente che: “Possono optare per il regime della cedolare secca le persone fisiche titolari del diritto di proprietà o del diritto reale di godimento (per esempio, usufrutto), che non locano l’immobile nell’esercizio di attività di impresa o di arti e professioni”.

C’è un vincolo anche dalla parte degli inquilini. Spiega ancora il sito dell’Agenzia delle Entrate: “Il regime della cedolare non può essere applicato ai contratti di locazione conclusi con conduttori che agiscono nell’esercizio di attività di impresa o di lavoro autonomo, indipendentemente dal successivo utilizzo dell’immobile per finalità abitative di collaboratori e dipendenti”.

Ci sono, infine, vantaggi per gli studenti (grandi alimentatori degli affitti in nero). Dice sempre il sito del Fisco: “La cedolare secca può essere esercitata anche per le unità immobiliari abitative, locate nei confronti di cooperative edilizie per la locazione o enti senza scopo di lucro, purché sublocate a studenti universitari e date a disposizione dei comuni con rinuncia all’aggiornamento del canone di locazione o assegnazione”.

Detta così il capitolo degli affitti in nero che per anni hanno sottratto al Fisco chissà quanti milioni di euro di gettito sembra chiuso definitivamente. Per una volta vincono l’equità e la giustizia fiscale. Si fa emergere il nero e si dà una scossa (in chiaro) al mercato immobiliare.

Solo che il legislatore, anche stavolta, non ha messo in conto l’infinita creatività tributaria dei contribuenti italiani. E per scoprirlo basta scorrere, come ha fatto un manager italiano che si sta trasferendo da Parigi a Milano e sta cercando un appartamento in affitto (a carico dell’azienda: è uno dei suoi bonus), gli annunci pubblicati sui vari portali specializzati, da Immobiliare.it a L’idealista.it.

Gli annunci sono così congegnati: o avvertono subito che si affitta solo “in regime di cedolare secca” e quindi si escludono i contratti stipulati con le aziende, insomma i contratti d’affitto regolari (chiamiamoli “classici”), che non consentono lo sconto fiscale dell’aliquota agevolata (al 21 o al 10%) e impongono, invece, di sommare il reddito generato dalla locazione a tutti gli altri redditi del proprietario-contribuente che in questo modo è sospinto, diciamo così, verso le aliquote marginali più alte. Verso i picchi del 40-45%, che – ovviamente – fanno paura.

Oppure ci sono gli annunci-civetta: si richiede un canone in apparenza conveniente ma quando si chiede di intestare il contratto di locazione ad un’azienda (quindi senza cedolare secca), ecco che scatta la trappola.

Il nostro manager italiano in via di trasferimento da Parigi a Milano s’è trovato di fronte alla proposta seguente: canone annuale con cedolare secca 37mila euro (poco più di 3mila euro al mese, accettabile per un grande appartamento nel cuore di Milano), canone senza cedolare (per lui unica possibilità visto che l’affitto glielo paga l’azienda e non può ricorrere ad altri sotterfugi) 52mila euro.

Ora fate attenzione alle cifre. Non si tratta di un piccolo ricarico ma di una differenza pari al 40% (52.000 – 37.000 = 15.000) del canone iniziale. Come si spiega? Semplice, il proprietario sa fare bene i suoi conti: sa che con la cedolare secca il suo obbligo fiscale, calcolato con la cedolare  al 21%, non supererebbe i 7.500 euro. Se, invece, il canone senza cedolare si somma a tutti gli altri suoi redditi l’obbligo fiscale balzerebbe di colpo al 40%, insomma non meno di 15mila euro. A questo punto la soluzione è una sola: far pagare la maggiore imposta (calcolata all’aliquota marginale del 40%) all’inquilino-azienda.

Se ci pensate un attimo è una forma di evasione fiscale, di nero 2.0 (o 4.0 ad essere più moderni). In passato, nella preistoria delle relazioni contribuente-Stato, si utilizzava il nero, era sufficiente non sottoscrivere nessun contratto (salvo garantirsi contro i morosi con qualche forma di fidejussione abilmente architettata dal proprio commercialista).

Oggi è sufficiente trasferire sull’inquilino-azienda l’obbligazione tributaria. E’ lui che deve pagare le imposte del proprietario, se no niente casa. Avanti il prossimo.