Il Coronavirus non solo ha cambiato le abitudini degli italiani nel fare acquisti, ma ha trasformato in maniera definitiva l’intera supply chain, dai produttori fino ai punti vendita. «Tutte le catene di fornitura – ci spiega Fabrizio Dallari, direttore del Centro sulla Logistica e Supply Chain Management della Liuc Business School – compresa quella del largo consumo, stavano andando verso logiche più leggere, al grido di “just in time”: si tratta di una filosofia che prevede di minimizzare gli sprechi e le scorte di magazzino perché, idealmente, si cerca di vendere il bene o servizio solo quando se ne ha realmente bisogno. È come durante la staffetta: si passa il testimone nell’esatto momento in cui ce n’è bisogno. Ovviamente avere scorte zero nella Gdo è pressoché impossibile, ma ci si era attestati su una disponibilità media di un paio di settimane. Con lo tsunami originato dal Coronavirus, invece, si è svuotata definitivamente la scorta, con qualche preoccupazione: è vero che la grande distribuzione organizzata mette sugli scaffali prodotti che provengono per il 92-95% dai confini nazionali, ma lo è altrettanto che, nel caso della pasta, non è che se finiscono le scorte si possono integrare rapidamente, serve il lavoro di mesi».
Le aziende hanno dovuto capire rapidamente che c’è bisogno di un Bcp, un business continuity plan che prevede la mappatura dei rischi. Oggi, ad esempio, si assiste da parte delle aziende produttrici a nuove modalità di vendita, come nel caso del “conto deposito”, che significa avere una parte della merce in magazzino e una parte distribuita direttamente ai principali clienti. Ma rimane un prodotto di proprietà dell’azienda finché l’insegna non si accorge di averne bisogno. Questa procedura ha ovviamente un costo per gli attori della filiera, ma garantisce che si possano creare delle situazioni capaci di mandare a gambe all’aria le aziende. In precedenza, ispirandosi al modello di Amazon del magazzino senza limiti, si è cercato di privilegiare i tempi di consegna e la customer satisfaction alla possibilità che questo modello reggesse l’urto di un evento avverso. Mancava, insomma, un piano B. E questo si è tradotto in un colpo notevole verso le imprese: secondo un’indagine condotta da Gs1 Italia, il 60% delle aziende della Gdo ha riscontrato problemi significativi nell’approvvigionamento dai fornitori durante le settimane del lockdown. Le difficoltà hanno riguardato specialmente le catene lunghe con produzioni o materiali dall’estero. Dagli studi che centri come la Liuc stanno portando avanti emerge chiaramente come il cambiamento di “mindset” delle aziende italiane sia un po’ più complesso del previsto, mentre riesce molto bene a quelle anglosassoni che hanno abitudini più militari nelle catene di approvvigionamento.
Senza contare che rimane l’attesa di capire se e come si svilupperà la seconda ondata di contagi. «I diversi scenari che si profilano – prosegue Dallari – cambiano anche la logistica. Se si deve velocizzare il prelievo di un materiale, si chiede all’addetto di caricarne la quantità desiderata su un camion e poi far partire la spedizione. Ma se invece si vuole minimizzare il numero di mezzi in circolazione, sia per necessità di contenere i costi, sia perché magari il personale, causa distanziamento, è diminuito dal punto di vista numerico, allora si cercherà di saturare peso e volume. E questa è una situazione da tempi di guerra: risorse scarse da ottimizzare. È quello che hanno fatto le aziende durante il Covid-19: mentre prima si puntava esclusivamente sul servizio, durante la pandemia, con una riduzione del 50% dei mezzi di trasporto in circolazione, i camion operativi dovevano per forza girare a carico completo. Questo si è tradotto anche in una diminuzione dell’assortimento sugli scaffali. Quando il consumatore si recava al supermercato partiva con la logica del “l’importante è che ci sia qualcosa”. Il che, a sua volta, ha portato a una maggiore efficienza: il riordino veniva effettuato solo per quantità considerevoli, le consegne avvenivano anche di notte e si è avuto un assaggio di un ciclo logistico a ritmo continuo in cui i turni venivano articolati sulle 24 ore. Ma ora, complici condizioni economiche un po’ migliori, mi sembra che la supply chain stia tornando sui suoi passi».
Sales forecasting, collaborative planning, vendor manager inventory: ecco gli strumenti che salvano aziende e mercato
Per evitare che questo succeda ci sono diversi strumenti nelle mani degli statistici che lavorano nelle grandi aziende per garantire al contempo il corretto approvvigionamento (anche in casi estremi come durante la pandemia). Il primo si chiama sales forecasting, ovvero previsioni di vendita. Nulla di nuovo, è uno strumento antico come il marketing, ma che oggi può poggiare su algoritmi e big data analytics. In questo modo si può provare a indagare la percezione che ha la clientela del prodotto e della situazione congiunturale, si può cercare di prevedere la resa di una campagna di marketing e che permette, quindi, di creare una “scorta di sicurezza” che consente di coprire il cuscinetto della variabilità delle vendite nel tempo. Questo sistema è particolarmente indicato per quelle produzioni, come quella alimentare, che ha dei termini di scadenza ben definiti da rispettare. Il secondo strumento è quello del “collaborative planning”, ovvero una sorta di allineamento con i principali clienti per capire quali sono le loro previsioni di vendita e modulare ulteriormente la produzione. Infine c’è il Vendor Manage Inventory, Vmi, una metodica che ha quasi 15 anni che consente di vedere le giacenze di magazzino dei clienti e anticipare, di conseguenza, le loro esigenze.
«Tanto più si è bravi a prevedere la domanda – conclude Dallari – tanto minore sarà il rischio di avere scorte eccessive. Anche perché la capacità previsionale è una vera e propria professione: ci sono aziende di grandi dimensioni che impiegano in questo dipartimento decine di persone per analizzare le temperature, gli orari di apertura dei negozi e molte altre variabili. In questo modo si evita il doppio rischio: non riuscire a soddisfare la domanda, e quindi vendere meno di quanto si potrebbe, oppure accumulare scorte eccessive. Durante il lockdown abbiamo assistito a un ribaltamento di ogni prospettiva: visto che la farina scarseggiava, colossi come Amazon parcheggiavano i loro camion direttamente fuori dalle aziende che la producevano. E durante la quarantena sono diminuiti drasticamente i versamenti delle aziende al Banco Alimentare, cui generalmente vengono destinati prodotti che hanno superato la cosiddetta data utile. Ma con il lockdown le persone acquistavano merci in scadenza».
L’ultimo punto di trasformazione della supply chain è determinato dall’Industry 4.0. La manifattura additiva può essere la risposta per alcune filiere. Per garantire il distanziamento sociale si possono impiegare robot collaborativi montati a bordo di Agv (ovvero veicoli autonomi) che possono caricare i carrelli e i camion. Oggi le aziende iniziano a guardare a queste innovazioni non più con un occhio rivolto esclusivamente al Roi (quanto mi costa, quanto tempo impiego ad ammortizzare questo investimento) ma, soprattutto, per garantire la business continuity. Anche nel caso di un nuovo, eventuale, cigno nero.
E anche il consumatore è cambiato
Non è certo una grande sorpresa scoprire che il Covid-19 ha trasformato forse in maniera definitiva anche l’attore finale della catena distributiva, che esiste proprio perché al termine di essa deve esserci qualcuno che acquista. Ebbene, il consumatore si è mutato in maniera molto profonda, e questo al di là di qualsiasi notazione relativa alla sua capacità di spesa, accresciuta o diminuita da una economia che, forse per la prima volta, è calata in modo molto diverso a seconda dei settori presi in considerazione. Secondo David Parma, Head of Strategy 3 – la nuova divisione di consulenza strategica del Gruppo Ipsos – «servirà un lavoro molto “intimo” tra aziende e consumatori. Questo perché ci troviamo di fronte a diversi game changer che afferiscono molto alla sfera privata: il primo è lo smart working, che cambia completamente il modo di consumare i pasti. Durante il lockdown si prediligevano prodotti a lunga durata e conservazione, ma ora che si può tornare a fare la spesa senza particolari problemi, che cosa succederà? Il tempo che si trascorre a casa è cambiato, sarà superiore e continuerà a esserlo rispetto a prima. E questo si riverbera in nuove abitudini di consumo che dureranno anche oltre la fine dell’emergenza Coronavirus: ad esempio i prodotti per il benessere, per l’igiene della casa e per la cura della persona sono entrati prepotentemente nel nostro carrello e non ne usciranno». Un’altra tendenza che si nota è quella relativa all’e-commerce. Era un “nice to have”, un di più che si poteva offrire alla clientela. Ma oggi quella stessa clientela pretende di avere un servizio a domicilio, tramutando la spesa online in un “must have”. «La spinta in avanti dell’e-commerce in Italia – spiega Parma – è tra i più alti al mondo durante il Covid, secondo solo a quello osservato in Cina. E da questo cambiamento non si può prescindere». Cambia radicalmente anche il modo di fare shopping e perfino di affrontare le promozioni: gli eventi oceanici, come il Black Friday, saranno soppiantati per un po’ da un “everyday low price” e questo per garantire al consumatore una maggiore sensazione di sicurezza anche nel negozio fisico, senza assembramenti tipici da saldi. «Un corollario al nuovo modo di comprare nei negozi – conclude Parma – è che ci saranno dei canali che diventeranno un unico punto vendita, vedremo probabilmente una riduzione degli strumenti a disposizione e tutto si svolgerà prevalentemente online. Questo anche in un’ottica di prezzo: la percezione, spesso errata, era che tutto fosse più caro. E questo si può eliminare con internet e con i comparatori».