Mario Draghi
MARIO DRAGHI PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

Fuoco amico contro Mario Draghi? Chi l’avrebbe mai detto! Ma in effetti non è propriamente fuoco amico: le considerazioni pubblicate con risalto dall’Economist circa i “programmi” approvati dal governo dell’ex banchiere centrale e, contemporaneamente, i dubbi della Corte dei Conti sulla capacità di spesa non nascono né da qualche malanimo né tantomeno da qualche “gomblotto”. 

Sono soltanto dati di fatto. Che balzano agli occhi – ai pochi che hanno la ventura di notarli, visto il silenzio della maggior parte dei media – solo perché vanno nel segno opposto di un coro di consensi per il governo del campo largo, un coro strameritato al confronto con i disastri degli ultimi trent’anni ma, come tutti i cori, bisognoso di qualche nota stonata.

Economist, puntura di Grillo per Mario Draghi

Di che stiamo parlando? Di due fatterelli, minimi. Il prestigioso settimanale britannico – controllato, lo ricordiamo, dalla Exor della famiglia Elkann con il 40% del capitale  espone in un lungo articolo tutta la diffidenza dell’estabilishment finanziario anglosassone sulla possibilità che la destra italiana possa governare bene il Paese.

Tra gli altri, l’Economist interpella Francesco Grillo, direttore di Vision, un think tank che monitora l’attuazione del programma. Sia chiaro: il cognome è un omonimia, si tratta di un eccellente giovane economista partner di McKinsey, di formazione internazionale, insomma un giovane Draghi, non certo un cuginetto di Di Battista. Alla domanda se un governo di estrema destra riuscirebbe a garantire all’Italia l’intera quota di sovvenzioni e prestiti a basso costo del programma di ripresa della pandemia dell’Ue, per un valore di oltre 200 miliardi di euro (203 miliardi di dollari), ecco la risposta di Grillo: “Quello che è stato realizzato finora è la parte più facile”, afferma. Sottolineando che (l’Economist dixit) “dei 96 obiettivi fissati da Bruxelles che il governo di Draghi ha raggiunto, tutti tranne tre riguardavano la creazione di un quadro amministrativo per gli investimenti. Solo 2-3 milioni di euro, meno dello 0,0015%, sono stati effettivamente spesi. Entro il 2026, un governo abituato a fare investimenti di 15 miliardi di euro all’anno dovrà portarli a quasi 50 miliardi di euro. Anche per “Super Mario”, come era conosciuto Draghi, sarebbe stato difficile”.

Produzione burocratica più che operativa

Avete letto bene? Lo stesso settimanale che mise in copertina Berlusconi di profilo, col titolo Unfit to leadItaly”, inadatto a governare l’Italia, annota come se niente fosse che il governo di Mario Draghi sul Pnrr ha prodotto solo burocrazia: necessaria, per carità, ma solo carte, non fatti.

Con sinistro sincronismo, a queste osservazioni – che in effetti serpeggiano da tempo, tra addetti ai lavori – fa eco la Corte dei conti italiana che, nella cronaca che ne fa Repubblica (un’altra testata non certo ostile a Draghi) dice: “restano difficoltà notevoli nella capacità di spesa delle singole amministrazioni, a dimostrazione del fatto che una maggiore disponibilità ed un maggior impiego di risorse non corrispondono automaticamente a reali capacità di sviluppo”.

Chiaro, anche qui? Significa che gli enti locali, attuatori degli investimenti del Pnrr, non sembrano capaci di spendere quei soldi, come del resto hanno sempre mal speso (cioè poco, tardi e malamente) i fondi europei del passato, salvo poche meritevoli eccezioni.

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Eppure è il Governo migliore

Com’è possibile che si dicano queste cose e che il governo Draghi uscente appaia ai più come il governo migliore degli ultimi trent’anni? 
La risposta sta nella comunicazione che Palazzo Chigi e i ministeri hanno fatto del loro lavoro sul Pnrr, ma anche sulla decisione di Draghi –personale- di agire subito dove necessario rinunciando a quel lavoro preliminare di rivoluzione (altro che riforma, serve davvero una rivoluzione) della pubblica amministrazione e delle leggi che la imbrigliano, una rivoluzione capace di renderla efficiente,

Macchè: i burocrati, ministeriali e periferici, sono stati accarezzati e blanditi in tutti i modi, senza nessun bastone a bilanciare tante carote. I pur numerosissimi commissariamenti (quasi 90) per l’attuazione di opere pubbliche ferme sono quasi tutti senza esito perché i commissari pur potendo agire in deroga a tante norme impiaccianti non lo fanno temendo di poterne domani essere chiamati a rispondere in qualche procura a briglia sciolta. Il Paese che Draghi ha preso in mano non funzionava, e continua a non funzionare. 

Non basta un demiurgo a salvarci dal caos

Se colpa può essere addebitato a Supermario è quella di aver lasciato correre la leggenda metropolitana che bastasse la sua autorevolezza a cambiare le cose. Macché.

Ultima goccia per far traboccare il vaso: il Sole 24 Ore che si incarica di ricordare quanti decreti attuativi mancano ancora affinché le leggi  varate nel corso della legislatura diventino attive: ben 434, dci cui 300 riconducibili al governo Draghi che è stato bravo a riassorbire il lascito dei due governi precedenti ma ha aggiunto il carico di lavoro collegato alle sue leggi al totale, enorme, da smaltire. Gli uffici funzionano male, le leggi nascono mal scritte, ed eccoci qua.

 

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Sergio Luciano, direttore di Economy e di Investire, è nato a Napoli nel 1960. Laureato in lettere, è giornalista professionista dal 1983. Dopo esperienze in Radiocor, Avvenire e Giorno è stato redattore capo dell’economia a La Stampa e a Repubblica ed ha guidato la sezione Finanza & Mercati del Sole 24 Ore. Ha fondato e diretto inoltre il quotidiano on-line ilnuovo.it, ha diretto Telelombardia e, dal 2006 al 2009, l’edizione settimanale di Economy. E' stato direttore relazioni esterne in Fastweb ed Unipol. Insegna al master in comunicazione d’impresa dell’Università Cattolica e collabora al Sussidiario.net.