Nei giorni scorsi è entrato in vigore il Regolamento n. 2019/2088/UE relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari. La nuova disciplina impone ai c.d. partecipante ai mercati finanziari (a titolo esemplificativo, un’impresa di assicurazione che renda disponibile un investimento assicurativo, istituti di credito o imprese di investimento che svolgano servizi di gestione portafoglio, enti pensionistici aziendali o professionali, gestori di fondi) di informare il mercato circa le proprie pratiche di responsabilità sociale di impresa e di descrivere le caratteristiche degli investimenti “verdi” eventualmente proposti.
Il nuovo Regolamento è un altro tassello della strategia dell’Unione Europea a fare del capitalismo sostenibile e responsabile una cifra caratteristica della propria politica economica, tanto nel settore industriale che in quello finanziario.
È un percorso che parte da lontano e che ha già visto, quale snodo essenziale, la Direttiva 2014/95/UE sulla pubblicazione delle informazioni non finanziarie da società quotate, istituti di credito ed imprese assicurative che superino determinate soglie dimensionali. Va detto che, però, il capitalismo sostenibile è anche l’ideale di un movimento culturale ed imprenditoriale noto come B-Corps che, sorto negli Stati Uniti, si sta diffondendo in tutto il mondo.
È auspicabile che, tra indicazioni legislative comunitarie e tendenze di mercato, si instauri un circolo virtuoso, capace di modificare gli assetti economici nel lungo periodo. In questo senso, è da menzionare l’esempio dell’Italia che, per prima in Europa, ha dato riconoscimento giuridico alle B-Corporation con l’introduzione delle società benefit.
Le società benefit sono società che perseguono, oltre allo scopo lucrativo di divisione degli utili per i soci, una finalità di beneficio comune, consistente nella produzione di impatti positivi (o riduzione di quelli negativi) a beneficio di comunità, ambiente, lavoratori ed altri portatori di interessi; gli amministratori delle società benefit sono chiamati dalla legge a bilanciare i due interessi ed a curare che lo svolgimento dell’attività economica in modo responsabile, sostenibile e trasparente.
La fattispecie è tutta contenuta nella legge 208/2015 che, però, tratteggia pochi elementi: l’obiettivo è, del resto, quello di introdurre una disciplina gentile, capace di innestare il nuovo modello societario su tutti i tipi già conosciuti. Società di persone o capitali o, ancora cooperative: tutte possono ambire a trasformarsi in benefit ed ottenerne la qualifica.
La legge non delinea un sistema organizzativo specifico per le società benefit; fatta eccezione per la nomina del responsabile di impatto, è fatto rimando alle regole proprie del tipo societario prescelto.
In ossequio ai principi di diritto societario – oggi iscritti espressamente all’art. 2086 c.c. – è però necessario che gli assetti organizzativi siano adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa.
Il concetto di assetto organizzativo non può che ricomprendere al suo interno, quanto meno quale termine apicale, anche l’organo amministrativo che, pertanto, dovrà essere organizzato e strutturato in modo coerente con la natura e le dimensioni della società, ivi compresa la sua qualifica di benefit.
Non è possibile in questa sede passare verificare, per tutti i tipi societari, quali possano essere, almeno in astratto, gli assetti organizzativi adeguati per il bilanciamento dell’interesse lucrativo con il perseguimento del beneficio comune.
Ci si limiterà, pertanto, a svolgere qualche riflessione con riferimento alle società di capitali.
Nelle società per azioni e nelle società a responsabilità limitata, specie in quelle più dimensionate e complesse, sarà opportuno privilegiare una struttura collegiale dell’organo amministrativo e l’affidamento di specifiche deleghe di gestione per il perseguimento dello scopo di beneficio comune.
L’attribuzione di deleghe ad uno o più amministratori non comporterà, necessariamente, anche l’assegnazione ad uno di essi dell’incarico di responsabile di impatto.
La migliore cura dello scopo di beneficio comune può infatti giustificare un sistema dove, al livello apicale (quello dell’organo amministrativo), stia la facoltà di indirizzo e programmazione rimangono in capo ad uno o più amministratori delegati mentre, ad un livello più basso nella catena organizzativa, siano assegnati compiti attuativi o di supporto istruttorio ad un diverso soggetto con la qualifica di “responsabile di impatto”.
Va precisato che la struttura dell’organo collegiale non è certo necessaria, specie nelle società in cui, le dimensioni contenute dell’organizzazione o dei volumi di fatturato, si tradurrebbe in un costo eccessivo o provocherebbe un’inefficienza dei processi decisionali.
In questi casi, sarà comunque consigliabile che l’incarico di responsabile di impatto venga affidato ad un soggetto diverso dall’amministratore unico. Sebbene sia una prassi diffusa, non sembra del tutto coerente che la funzione di responsabile di impatto sia svolta da uno dei soci. Infatti, l’esigenza di bilanciare lo scopo lucrativo con quello di beneficio comune consiglia che il ruolo di responsabile di impatto sia attribuito a chi non sia specifico portatore dell’interesse agli utili.
Ancora sul piano strutturale, non può essere ignorata la possibilità di organizzare l’amministrazione nelle società per azioni secondo il modello dualistico o quello monistico.
Il modello dualistico conosce due organi, il consiglio di gestione ed il consiglio di sorveglianza; al primo sono affidati compiti amministrativi, mentre al secondo spettano funzioni di indirizzo e controllo.
Il modello monistico concentra, invece, in unico organo tanto le funzioni di amministrazione che quelle di controllo.
Anche sotto tale profilo, dalla legge 208/2015 non provengono indicazioni esplicite e, pertanto, la preferibilità del modello tradizionale o di uno di quelli alternativi non può che giungere da una riflessione sistematica.
Sotto tale profilo, non è irrilevante che nel sistema dualistico l’approvazione del bilancio sia di competenza del consiglio di sorveglianza invece che dell’assemblea (cfr. art. 2409-terdecies c.c.).
L’approvazione del bilancio da parte dell’assemblea costituisce infatti, per le società benefit, un indubbio momento di ascolto e di confronto con gli azionisti che sono i primi interlocutori della società, certamente interessati all’attuazione sia dell’impegno ad operare in modo “responsabile, sostenibile e trasparente” sia al raggiungimento dello scopo di beneficio comune.
Almeno per tale ragione, dunque, appare preferibile un sistema di amministrazione tradizionale oppure organizzato secondo il modello monistico. L’esperienza di questi anni già vede società benefit che adottano il sistema monistico (come ad esempio, Almo Nature Benefit S.p.A.)
Quale che sia il sistema amministrativo adottato, la società non potrà trascurare una riflessione sui criteri di composizione dell’organo amministrativo.
Tenuto conto delle dimensioni aziendali, la società dovrà valutare l’inclusione nel consiglio di amministratori indipendenti.
Seppure naturalmente privi di deleghe operative, questi amministratori potranno utilmente contribuire all’individuazione del punto di equilibrio tra interessi dei soci, il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli altri soggetti su cui sui quali l’attività sociale possa avere un impatto, facendosene in qualche modo portavoce.
Tema sensibile è la gestione della diversità nella composizione dell’organo amministrativo.
Sotto tale profilo, sono note le indicazioni provenienti dalla legge così come la raccomandazione dei codici di autodisciplina di Borsa Italiana con riferimento alla composizione dei board delle società quotate ed alle c.d. quote rose per il rispetto della parità tra i generi.
Il tema della diversity è, però, più ampio, come negli anni recenti è stato colto nel Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana e dalla Commissione Europea nella Comunicazione (2017/C 215/01) sugli Orientamenti sulla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario.
Di tale concezione ampia della diversità in consiglio dovrà tenere opportunamente conto la società benefit; è evidente che un’amministrazione attenta ai rapporti con gli stakeholders presupporrà la selezione di consiglieri con percorsi professionali e formativi adeguati all’impegno della società nella responsabilità sociale di impresa ed al raggiungimento di specifici scopi di beneficio comune.
Quale che sia la struttura o composizione dell’organo amministrativo, un accento particolare assume nelle società benefit l’obbligo di istituire assetti adeguati.
L’indicazione della legge 208/2015 è limitata alla nomina del responsabile di impatto.
Va da sé, tuttavia, che tale figura è solo un elemento minimale; tutta l’organizzazione aziendale dovrà essere funzionalizzata alla gestione dei rischi connessi al perseguimento del benefico comune (si pensi, ad esempio, agli effetti reputazionali di eventuali scelte aziendali sbagliate).
La definizione dell’intero organigramma aziendale e dei flussi decisionali ed informativi dovranno tenere conto della tensione della società al beneficio comune, che è, nelle benefit, immanente all’attività sociale al pari dello scopo di lucro.
Pertanto, anche gli uffici preposti al controllo interno dovranno dialogare con la nuova funzione del responsabile di impatto e, a tendere, dovranno acquisire competenze specifiche ed adeguate allo svolgimento del ruolo in imprese a finalità ibrida o non esclusivamente lucrativa.
Il tema della struttura dell’organo amministrativo e degli assetti organizzativi si interseca, necessariamente, con quello dei profili di responsabilità in cui gli amministratori di società benefit possono incorrere.
La mancata nomina del responsabile di impatto e la definizione di assetti organizzativi inadeguati sono fonte di responsabilità per gli amministratori.
Accanto a tale profilo organizzativo, la responsabilità degli amministratori potrà sorgere, naturalmente, anche dalla violazione di obblighi funzionali e, in particolare, del dovere di bilanciare “(…) l’interesse dei soci, il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi delle categorie indicate nel comma 376”, quali persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse.
Va però ricordato che l’affermazione della responsabilità degli amministratori non potrà prescindere dalla verifica della sussistenza dei relativi presupposti e criteri di imputazione tradizionali del diritto societario comune.
In altre parole, sarà necessario che l’inosservanza degli obblighi di bilanciamento tra interessi sia almeno negligente.
Ritenere diversamente aprirebbe un sindacato nel merito delle scelte gestorie con effetti imprevedibilmente espansivi sui confini della responsabilità; un simile esito contrasterebbe però con la chiara intenzione del legislatore di lasciare agli amministratori ampia discrezionalità per l’attuazione del bilanciamento.
Infine, seppure non sia stata espressamente richiamata dal legislatore, non può trascurarsi di indicare, quale fonte di possibile responsabilità, anche la mancata pubblicazione della relazione di impatto, la sua incompletezza, la sua falsità o erroneità. È anzi questa una ipotesi di responsabilità centrale, tenuto conto degli effetti reputazionali collegati all’omessa o erronea pubblicazione della relazione di impatto.
È perfino verosimile che, sotto il profilo risarcitorio, proprio gli aspetti reputazionali avranno maggiore rilievo che nelle società ordinarie; la capacità distintiva della società benefit sul mercato deriva proprio alla assunzione della qualifica ed all’impegno di perseguire scopi di beneficio comune.
Una eventuale azione colposa o dolosa degli amministratori che si rifletta sulla affidabilità della società benefit presso il mercato (composto da consumatori, fornitori o clienti sensibili alle tematiche della sostenibilità) determinerà più facilmente una perdita di occasioni o di redditività.
Gli amministratori potranno peraltro essere chiamati a rispondere per danno diretto ai soci ed ai terzi che abbiano investito (o concesso finanziamenti) alla società per gli impegni assunti in materia di sostenibilità ed agire etico; soprattutto la rappresentazione infedele dei risultati raggiunti dalla società, ove imputabili agli amministratori, può determinarne la responsabilità verso l’investitore e l’insorgenza dell’obbligo risarcitorio quantificabile nel capitale perso o nella maggiore remunerazione del finanziamento o dell’investimento alle diverse condizioni eventualmente reperibili sul mercato.
Fuori da queste ipotesi di danno diretto non è però ammessa alcuna legittimazione attiva degli stakeholders per sanzionare la mancata attuazione degli scopi di beneficio comune o la violazione delle regole poste dalla legge 208/2015.
Una tutela indiretta giunge agli stakeholders traditi dalla possibilità di intervento riconosciuta alla Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
L’assenza di un’azione diretta degli stakeholders è, però, più che una svista del legislatore, una naturale conseguenza della consistenza e natura del c.d. scopo di beneficio comune e del suo riflesso sulla posizione giuridica dei portatori di interesse.
Lo scopo di beneficio comune consiste nella realizzazione di un impatto e, quindi, non è fonte di alcuna posizione giuridica qualificata per chicchessia; conseguentemente, è allo stato improbabile immaginare presupposti di legittimazione degli stakeholders per valere, fuori dai casi di operatività degli artt. 2394 e 2395 c.c., una responsabilità degli amministratori per il mancato perseguimento della finalità di beneficio comune.