Uno dei semplici ma grandi piaceri della vita degli italiani, il profumo e il sapore del pane preso dal panettiere sotto casa, è in pericolo. Il rincaro della farina e quello dell’energia mettono a rischio un settore che annovera 30.578 imprese, in gran parte piccole, con oltre 123 mila occupati e ricavi per 8 miliardi di euro. In questa intervista a Economy, il presidente nazionale di Assipan Confcommercio Antonio Tassone avverte: molti panettieri hanno già sospeso l’attività perché i costi sono superiori ai ricavi, il Governo ascolti le nostre richieste o la produzione di pane artigianale è davvero a rischio.
Tassone, quanto incidono oggi il rincaro della farina e quello dell’energia sui panificatori?
La crescita dei costi è stata esponenziale: la farina da panificazione è aumentata di almeno un terzo in un anno. Nel gennaio 2022 un quintale costava tra i 50 e i 55 euro a quintale, nel gennaio di quest’anno eravamo tra i 68 e i 73 euro. Per quanto riguarda l’energia una qualche diminuzione rispetto ai picchi massimi c’è stata, specie sul gas. Ma passato il periodo natalizio, con i suoi alti consumi che tendono un po’ a drogare la realtà e complicarne l’analisi, si sta facendo i conti con l’impatto reale dei costi. Oggi la prospettiva è molto più preoccupante, perché i consumi si sono contratti mentre i costi continuano ad essere esorbitanti: la prospettiva non è rosea.
Quali sono le conseguenze per le imprese?
L’uno-due subìto negli ultimi 18 mesi dalla nostra categoria, con l’aumento dei costi energetici e delle materie prime, le ha messe in seria difficoltà, provocando una contrazione di liquidità. Il nostro osservatorio ha constatato, attraverso un’indagine condotta su tutto il territorio nazionale, che la crisi è stata affrontata attingendo alla marginalità. Detto in soldoni, i panificatori italiani hanno coperto buona parte degli incrementi dei costi mettendo mano al portafogli, per non influire sul costo pagato dal consumatore finale. Una scelta che ha premiato, perché gli italiani hanno subìto un aumento medio del 10-12% del prezzo del pane a seconda delle zone del Paese, mentre in Europa il prezzo è aumentato in media del 18%. I panificatori italiani, dunque, sono stati molto più responsabili dal punto di vista sociale; ma ora il problema è che quella disponibilità non c’è più. Quanto agli strumenti che sono stati fin qui messi a disposizione, peccano di efficacia, perché non risolvono il problema dei produttori di beni di prima necessità come il pane.
Qual è stato l’atteggiamento della politica nei vostri confronti?
La nostra categoria è stata un po’ sedotta e abbandonata. A ridosso dell’approvazione della legge finanziaria era stato presentato un emendamento che stanziava 15 milioni di euro per il mondo della panificazione. Sarebbe stata una boccata d’ossigeno che rispondeva alle nostre richieste, in fondo semplici: riconoscere la misura del credito d’imposta con uno sconto in fattura, per agevolare i panificatori che hanno seri problemi di liquidità. E poi agire con una moral suasion verso i fornitori di energia elettrica e gas, al fine di consentire a tutti i produttori di beni di prima necessità, ma soprattutto ai panificatori, di impedire il distacco della fornitura a fronte del versamento di un acconto del 20%. Anche perché i grandi player oggi non consentono una doppia consecutiva dilazione: quindi il panificatore che ha dilazionato, poniamo, la bolletta di novembre magari aveva la stessa esigenza su quella di gennaio, ma non ha potuto usufruirne.
Quali effetti possono avere sul settore questi chiari di luna?
Da qui alla metà dell’anno, in assenza di aiuti concreti alle imprese e/o di interventi lineari e strutturali finalizzati a limitare l’impatto negativo della crisi energetica, si rischia di perdere fino a 1.350 imprese dell’intero settore della panificazione che potrebbero chiudere senza essere sostituite da nuove imprese, con una perdita di circa 5.300 posti di lavoro. Fin qui più che chiusure ci sono state sospensioni: molti hanno deciso di sospendere l’attività perché i costi sono superiori ai ricavi, in attesa tempi migliori. Si è affrontato il Natale con fiducia, ma ora molto tornati alla sospensione. Siamo una categoria resiliente, chi lavora la notte come i panificatori lo è. Ma in questo momento c’è molta sfiducia e scoramento, perché gli esiti dell’impresa non sono determinati dalla propria bravura ma da variabili talmente esogene che non abbiano nessuna capacità di risposta.
Cosa chiedete per evitare questo scenario?
Non vogliamo tirare la coperta della finanza pubblica, perché siamo consapevoli che è molto corta: infatti non chiediamo uno strumento nuovo, ma un cambio di utilizzo dello strumento già esistente. Va bene il credito d’imposta, ma chiediamo di poterlo usarlo in modo diverso. Le nostre imprese hanno in media 5 dipendenti, non tutte hanno la capacità fiscale per rispondere all’eventuale credito maturato in seguito all’aumento delle utenze; ci ritroveremmo quindi con uno strumento non efficace. Si tratta di dare ai panificatori la possibilità di vedere riconosciuto lo sconto immediatamente in fattura.
C’è davvero il rischio, da voi paventato, che il pane artigianale possa sparire dalle tavole degli italiani?
Sì, perché le nostre spalle sono ben più piccole di quelle delle grandi imprese. La capacità finanziaria delle Pmi artigianali non è paragonabile, così come la produttività e la possibilità di ottimizzare i costi di gestione. Aggiungo che il panificatore italiano non ha fatto ricorso a cassa integrazione, licenziamenti, riduzione di personale, perché ne deriverebbe una difficoltà di produzione: il nostro pane è fatto ancora con le sapienti mani dei panettieri italiani. Ma nella grande industria è più facile che possa accadere, c’è un flusso di automazione produttiva che nell’artigianale non c’è. Il rischio insomma è che le piccole e medie imprese di questo passo scompaiano, lasciando spazio ai grandi operatori industriali.
Le difficoltà sono sorte negli ultimi mesi o venivano da più lontano?
Anche quello della pandemia è stato un periodo duro. Siamo stati considerati come una categoria privilegiata per non essere stati sospesi, ma in realtà se si pensa che uffici, bar, ristoranti erano chiusi, e che gli italiani sono diventati tutti novelli panettieri e pizzaioli, con la conseguente penuria di lievito… In realtà i numeri nel primo periodo, quello del lockdown, ci hanno penalizzato moltissimo. Quanto al rischio delle chiusure, in passato erano molto più legate alla difficoltà di un cambio generazionale, perché quello del panettiere è un mestiere molto difficile, che continua in molte parti d’Italia a farsi di notte: quindi le nuove generazioni stentano ad appassionarsi all’arte bianca.
Prevedete proteste in grande stile?
Sinora abbiamo preferito sempre il dialogo istituzionale. Siamo in attesa di una risposta dal Ministero delle imprese e del Made in Italy, e della convocazione del presidente del Consiglio Meloni. Continuiamo ad avere fiducia nelle istituzioni, anche se la pressione dal basso è molto forte, oggi forse più di prima. Ma se vogliamo continuare ad avere il pane buono ci vuole una risposta tempestiva, ormai non abbiamo più molto tempo. Anche il consumatore gioca la sua partita stando vicino agli esercizi di vicinato, con i consumi di prossimità, sembra poco ma in realtà è molto. Dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione: cosa sarebbe una città italiana senza le piccole botteghe, il panettiere, la pizzeria di fiducia? Questo è un Paese che per fortuna vive anche di queste realtà. Abbiamo bisogno di credere che tutto ciò possa ancora continuare a esistere.