Paese a pezzi e cantieri chiusi, l'italia del cemento che non c'è
Ponte Morandi

Il crollo del ponte Morandi ha fatto soprattutto 43 vittime innocenti la vigilia di Ferragosto. Ma ha anche messo sotto gli occhi di tutti una realtà che in fondo si conosceva, ma non si voleva vedere: l’Italia sta cadendo a pezzi. Altri tre ponti sono crollati prima della catastrofe di Genova in meno di due anni. Nell’ottobre del 2016, il cavalcavia sulla statale 36 Milano – Lecco, tra Cesana Brianza e Annone, cede mentre viene attraversato da un megatir da 108 tonnellate, uccidendo un automobilista che passava lì sotto. Eppure questi bestioni da oltre cento tonnellate, che fanno risparmiare le aziende siderurgiche sul trasporto delle bobine di metallo, continuano a scavare solchi sull’asfalto e a usurare pesantemente le infrastrutture di tutto il Paese. Nel marzo del 2017 crolla il cavalcavia sull’autostrada A14 tra Ancona Sud – Osimo e Loreto, sul quale si stava lavorando, uccidendo due persone in transito. Un mese dopo a Fossano, Cuneo, cede all’improvviso il ponte della tangenziale, finendo su un’auto dei carabinieri che riescono a salvarsi. Non uno ma tre segnali d’allarme, con altrettanti morti, che non sono bastati a evitare il crollo del ponte Morandi. Una sciagura che ha evidenziato una volta per tutte come le infrastrutture si trovino in condizioni drammatiche.

Il paese ha troppe infrastrutture obsolete, abitazioni cadenti, interi quartieri a rischio sismico o idrico ma da decenni è tutto paralizzato

Secondo Antonio Occhiuzzi, direttore dell’Istituto di tecnologia delle costruzioni del Cnr, decine di migliaia di ponti in Italia hanno superato la durata di vita per la quale sono stati progettati e costruiti, e in moltissimi casi i costi prevedibili per la manutenzione straordinaria superano quelli della demolizione e ricostruzione. Il Codacons ha stilato una lista di decine di viadotti, cavalcavia e ponti a rischio in tutta Italia, chiedendo che non siano transitabili dai mezzi pesanti in attesa di verifiche. È poi partita l’abitudine italica dello scarico di responsabilità, ben rappresentata dalla decisione del sindaco di Benevento Clemente Mastella di chiudere un altro ponte progettato da Riccardo Morandi, il San Nicola: se non era sicuro, perché attendere il crollo del ponte di Genova? E il Mit ha dato 10 giorni (!) agli enti locali per comunicare le infrastrutture a rischio…

Il grande blocco

Dietro a tutto questo c’è la paralisi di un settore fondamentale per un Paese degno di questo nome: l’edilizia. Un blocco che riguarda le grandi opere, ma anche l’edilizia scolastica, nonostante tante scuole siano a rischio; gli interventi antisismici, di cui ci si ricorda puntualmente solo a catastrofe avvenuta; e anche il residenziale, fermo ai livelli degli anni Trenta. Non solo un problema di sicurezza insomma, ma anche di declino della nostra economia: il mezzo punto percentuale che ci manca per riportarci ai livelli pre-crisi, e per raggiungere o quasi la crescita media europea, è proprio quello dell’edilizia. Ai ponti che crollano, agli intonaci dei soffitti delle scuole che cadono sulle teste dei nostri figli, alle case che cedono a terremoti che in Giappone non farebbero un baffo, si aggiungono quindi mezzo punto di PIL e ottocentomila posti di lavoro in meno. Una situazione lose-lose, nella quale perdiamo tutti. Secondo i dati dell’Ance, Associazione nazionale costruttori edili, nel decennio 2007-2017 gli investimenti in costruzioni sono calati in modo drammatico: il non residenziale pubblico è sceso del 51,1%, il non residenziale privato del 36,8%, la nuova edilizia abitativa del 64,2%.

La stasi dell’edilizia e’ costata al paese dal 2007 ad oggi mezzo punto di Prodotto lordo e 800mila posti di lavoro in meno

L’effetto sulle imprese e sull’occupazione è stato devastante: hanno chiuso 120mila aziende, il 40% delle medie e il 30% delle piccole e delle grandi, con una perdita di 620mila posti di lavoro secondo dati delle Casse edili, cui vanno aggiunti quelli dell’indotto, stimabili in oltre 200mila. Secondo la stima del Centro studi Consiglio nazionale ingegneri su dati Ance, la spesa per nuove opere stradali e del Genio Civile è passata tra il 2008 e il 2017 da 16,4 miliardi di euro a 10,4 miliardi. Una conferma arriva da Eurostat, secondo cui l’Italia investe sempre meno soldi pubblici nel settore trasporti: dal 2009 al 2016 le risorse investite sono scese da 35,6 a 26,6 miliardi. L’Upi, l’Unione provincie italiane, ha stimato che la spesa per ognuno dei 152 mila chilometri di strade regionali e provinciali in pochi anni è scesa da 7,3 a 2,2 euro, con risultati sotto gli occhi di tutti.

La sicurezza

All’indomani del disastro di Genova, il Governo ha affermato, per bocca del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, di essere «determinato a varare una grande operazione di messa in sicurezza infrastrutturale del Paese. Un piano che non riguarderà solo la rete autostradale, i ponti, i viadotti, gli acquedotti, ma anche le scuole e le situazioni di rischio causate dal dissesto idrogeologico». Non pare che qualcuno abbia fatto una stima di quanti miliardi occorrerebbero per mettere davvero in sicurezza il Paese. Ci proviamo noi: mille miliardi, un po’ meno della metà del debito pubblico, di cui 850 miliardi per la messa in sicurezza sismica (stima massima del rapporto finale di Casa Italia, la struttura di missione affidata all’ex rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone) e il resto per le migliaia di ponti, viadotti… Senza contare le nuove grandi opere da costruire, TAV in testa, Movimento Cinque Stelle permettendo, ovviamente. Ma il vero problema non sono gli stanziamenti, che sono tornati a crescere: ci sono 140 miliardi pronti, di cui 60 dal fondo investimenti e sviluppo infrastrutturale, 27 dal fondo sviluppo e coesione, 15 dai fondi strutturali europei. Il punto, come spiega il presidente di Ance Gabriele Buia nell’intervista a Economy, è che i fondi stanziati non si riescono a spendere. Decine di miliardi di euro sono bloccati nella palude della burocrazia, in attesa di autorizzazioni del Cipe, della Corte dei Conti… Questo è il nodo da sciogliere se si vuole riavviare il motore dell’edilizia. Il Codice appalti ha ulteriormente complicato la situazione. Secondo uno studio del Nucleo di verifica e controllo della Presidenza del Consiglio sui tempi di realizzazione di 56mila opere, la media per lavori medio-grandi è di 15 anni e 8 mesi, più della metà dei quali sono “tempi di attraversamento”: burocrazia, attese. Anche Giovanni Ajassa, direttore del servizio studi Bnl, sottolinea che secondo uno studio della Banca d’Italia la durata media dei lavori pubblici di importo più elevato è attorno ai 15 anni. 

Decine di miliardi di euro sono bloccati nella palude della burocrazia, in attesa degli ok del cipe, della corte dei conti

Ance ha segnalato, con l’iniziativa Sbloccacantieri, oltre 21 miliardi di euro di opere bloccate per 270 casi segnalati su tutto il territorio nazionale, con 330mila posti di lavoro in meno e 75 miliardi di euro di mancate ricadute sull’economia. Così anche il 2017, che avrebbe dovuto essere un anno di ripresa per il settore, si è chiuso con una flessione, sia pur minima. E la stessa cosa sta accadendo nel 2018. Per questo i costruttori non si fidano più delle promesse e avvertono il Governo: se nella legge di bilancio non ci saranno norme adeguate per il rilancio del settore, sono pronti a scendere in piazza insieme ai sindacati.

Il governo lavora in tandem con il CNR
A fianco, da sinistra il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, della Lega,  e Antonio Occhiuzzi, direttore dell’Istituto di Tecnologia delle costruzioni del Centro nazionale delle ricerche.