Enrica  Arena

Secondo l’ultimo rapporto Vegano OK, il più diffuso standard etico al mondo con oltre 1000 realtà certificate e decine di migliaia di prodotti sia in Italia che all’estero, da qui al 2022 il mercato planted based passerà dagli attuali 7,4 a 11,9 miliardi di euro. Per quanto riguarda l’alimentare, i sostituvi dela carne persano per 5,2 miliardi di euro. Usa, Europa e Giappone sono i mercati principali (non vi sarà sfuggito l’approccio sempre più vegan-friendly intrapreso da McDonald’s e TGI Fridays). Aggiungiamoci il rating etico con cui la Lav, la più importante associazione animalista italiana, classifica le aziende di moda in base al non utilizzo di materiali di origine animale: sostituzione della pelliccia animale (V), sostituzione anche delle piume (VV), sostituzione dei precedenti più seta e pelle (VVV), sostituzione anche della lana (VVV+). Così designer, trendsetter e manager del fashion sono sempre più impegnati nella ricerca di nuovi materiali in linea con i loro valori aziendali… o per conquistare nuove fette di mercato. Basti solo pensare alle recenti decisioni di alcune grandi maison del lusso come Chanel, Gucci, Armani, Versace, Tom Ford & Co., Calvin Klein e diversi altri o di brand low cost come Oviesse, Zara, H&M e Bershka, di abolire l’uso di pellicce o pelli esotiche dalle loro collezioni.

Nuova operatività ristori Emilia-Romagna: banner 1000x600

Nuova operatività ristori Emilia-Romagna

A partire dal 21 novembre ampliata l’operatività dei Ristori da €300 milioni riservati alle imprese colpite dall’alluvione in Emilia-Romagna. La nuova misura, destinata a indennizzare le perdite di reddito per sospensione dell’attività per un importo massimo concedibile di 5 milioni di euro, è rivolta a tutte le tipologie di impresa con un fatturato estero minimo pari al 3%.


I mercati principali sono gli Usa, l’Europa e il Giappone. E c’è anche il rating etico che classifica le aziende in base alle loro policy

«Il futuro del fashion», ne è convinto Aiko Bode, group chief sustainability officer di Fenix Outdoor, il gruppo svedese (572,4 milioni di euro di fatturato nel 2018) a cui appartengono marchi quali Fjällräven, Hanwag, Brunton, Royal Robbins e Globetrotter, che si è posizionato con i suoi prodotti per l’outdoor proprio in questo ambito, «sarà sempre più orientato verso la sostenibilità. In caso contrario, saremo condannati ad assistere al crollo della nostra cultura e dei nostri stili di vita. Conviene a tutti fare meno male al pianeta e agli esseri che lo abitano, solo così potremo sopravvivere. È giusto, dunque, che anche la moda e l’industria tessile si prendano le proprie responsabilità, anche sensibilizzando i consumatori rispetto a certe tematiche. Il problema è che la maggior parte delle persone solo quando scoppia qualche grosso scandalo tende a rivolgersi a marchi consapevoli che già da tempo hanno preso in considerazione le problematiche ambientali e sociali facendone parte integrante del loro modello d’impresa. In futuro ci sarà, però, una richiesta sempre maggiore di trasparenza e responsabilità a livello internazionale, sia da parte delle persone sia dei governi, per cui assisteremo a un trend a cui nessuno si potrà sottrarre nel lungo periodo».

«Posizionarsi come brand di moda ecosostenibile sarà sempre più un valore aggiunto agli occhi del consumatore nel prossimo futuro più che nell’immediato», sottolinea Gloria Barana, founder di Filotimo, l’azienda veronese animal friendly che ha puntato su capi di seta grezza, quella cioè che non uccide i bachi, ma è ricavata dai bozzoli lasciati a terra da questi insetti, su lana che arriva da allevamenti in grado di garantire il benessere degli animali, e su fibre vegetali come canapa e ortica che hanno bisogno di poca acqua, non richiedono trattamenti chimici e hanno una resa maggiore in quanto viene utilizzata tutta la pianta (a differenza, per esempio, del cotone, di cui si usa solo il fiocco). «Difficilmente», continua Barana, «si potranno reggere ancora per molto i ritmi di questo sistema moda e le persone iniziano a comprenderlo e a compiere scelte che premiano le realtà virtuose, ma la strada è ancora lunga. La speranza è che si arrivi a un momento in cui non ci sia più bisogno di specificare che un brand è attento all’ambiente, ma che si possa dare per scontato. Nessun abito vale il prezzo che stanno pagando ambiente, animali e non da ultime le persone. Sapere di poter indossare un capo che non ha recato danno, o il meno possibile, a ciò che ci circonda è un modo per dargli dignità e valore, cose che si stanno perdendo in un sistema in cui i prezzi sono molto bassi, la qualità scarsa e il ricambio di merci velocissimo».

La pensa così anche Mateja Benedetti, sustainable fashion designer che ha dato vita al brand Benedetti Life, artefice di moda ecologica e cruelty-free attraverso prodotti realizzati con materiali cento per cento naturali come, per esempio, la buccia di mela. «Le nuove generazioni sono più consapevoli del danno che la società capitalista ha provocato non solo sul pianeta, ma su tutti gli esseri viventi, incluso l’uomo. Gli scienziati ce lo hanno detto: ci restano piu o meno dieci anni per ridurre il danno irreparabile sull’ambiente che le emissioni di Co2 hanno provocato e continuano ad arrecare. La moda non può far finta di nulla: le alternative ci sono rispetto ai tessuti ottenuti dagli animali o dalle colture che richiedono molta acqua e verso le quali si usano pesticidi e sostanze chimiche che inquinano. Da quelli riciclati fatti con bottiglie di plastica e reti, per esempio, a quelli ricavati da piante e frutti come ananas, uva, funghi, mele».

Si va dai tessuti totalmente naturali ricavati, tramite sofisticate procedure tecnologiche, con i rimasugli della polvere di caffè, al latte scaduto e ai mozziconi di sigarette, dall’ananas alle foglie e al fusto di banano o altri legni, passando per le alghe, come nel caso del marchio italiano SeaCell, che dalla lavorazione dell’alga bruna del Nord Europa ricava una fibra che rilascia peraltro anche una sostanza nutriente e protettiva molto utile specie per le persone con pelli sensibili. L’Italia, d’altronde, non è seconda a nessuna in quanto a innovazione applicata al fashion. Vegea, per esempio, produce scarpe, borse e vestiti realizzati con biomateriale ricavato dagli scarti dell’uva, mentre Fera Libens dà vita a scarpe senza usare nessun materiale di derivazione animale: Alcantara per la tomaia, microfibra per la fodera, gomma Vibram per le suole e cotone cento per cento ecofriendly per i lacci. Orange Fiber è stata, invece, la prima e unica azienda al mondo ad aver brevettato e a produrre e commercializzare tessuti sostenibili a partire dai sottoprodotti dell’industria di trasformazione degli agrumi, nella quale mediamente il 60% del peso di un’arancia è considerato “scarto” dopo la produzione di succo. Considerando che l’Italia produce ben 700mila tonnellate di sottoprodotto di agrumi ogni anno, si può ben comprendere la portata di un tale business. Non è un caso che nel 2017 una maison come Salvatore Ferragamo abbia dato vita alla Ferragamo Orange Fiber Collection, con capi realizzati proprio con questa metodologia, e che il tessuto Orange Fiber sia stato inserito nella Conscious Exclusive 2019, una collezione speciale lanciata una volta l’anno dal colosso svedese H&M interamente dedicata alla natura e ai materiali sostenibili. «Oggi», spiega Enrica Arena, una delle due giovani fondatrici di Orange Fiber, «i consumatori, accanto alla sostenibilità, ricercano il gusto, la mano dello stilista, la bellezza degli abiti e dei materiali. Prediligono la qualità piuttosto che la quantità e sono disposti a pagare un prezzo alto e medio-alto per prodotti di design e ad alto contenuto di innovazione creati nel rispetto dei propri valori etici: sostenibilità, trasparenza, tutela dell’ambiente e dei lavoratori. Ecco che adottare un posizionamento sostenibile rappresenta non solo un valore aggiunto per i clienti, ma anche per le aziende, perché può aprire interessanti prospettive di crescita competitiva e soddisfare le esigenze di tutti quei consumatori evoluti che sono alla ricerca di un’offerta di qualità dal punto di vista del servizio e dei contenuti estetici ed etici dei prodotti, motore di quel cambiamento virtuoso che sta alla base dell’economia circolare».

E COL GRAFENE LA BORSA DIVENTA INDISTRUTTIBILE 

L’Italia rimane un’eccellenza nel mondo del fashion e della sperimentazione di nuovi materiali, non solo nell’ambito della moda vegana. Il brand Leghilà, per esempio, è stato il primo a realizzare nel 2004 la prima borsa in neoprene, il materiale utilizzato per le mute subacquee, quindi estremamente flessibile, morbido, resistente e impermeabile. A questa innovazione, che consente di lavare le borse in lavatrice tutte le volte che si desidera, l’azienda veneta ne ha aggiunta a partire da quest’anno un’altra: l’introduzione nella collezione del grafene, il materiale più forte, resistente e flessibile attualmente esistente, definito proprio per queste sue caratteristiche il supermateriale del futuro. Non a caso ritenuto il più adatto a fabbricare, fra le altre cose, vele solari per futuribili navi spaziali destinate alle lunghe percorrenze. Applicato al neoprene, ha l’effetto di rendere praticamente indistruttibili le borse grazie alla resistenza degli atomi di carbonio del grafene e alla morbidezza del neoprene. Una realtà innovativa alfiere del Made in Italy nel mondo che va nella direzione opposta rispetto al mondello dell’usa e getta che è alla base dell’economia dei consumi e di molti brand moda.