I problemi si sono materializzati alla fine del 2020, annus horribilis della pandemia. La carenza di semiconduttori – una congiuntura senza precedenti nella storia – è partita da lì. Con una supply chain molto lunga – basti pensare che una grande azienda di semiconduttori conta su 16 mila fornitori altamente specializzati situati in molteplici paesi – interdipendente e complicata e, giocoforza, vulnerabile perché esposta all’impatto disruptive di “cigni neri” come l’epidemia da Covid-19, il settore è andato subito in crisi manifestando un’estrema difficoltà a riprendersi dallo shock pandemico.
“Microchips”, perché sono così importanti?
Noti anche come circuiti integrati, i “microchip” elettronici sono elementi essenziali per i prodotti digitali. Utilizzati nella quotidianità per lavoro, istruzione e svago, servono per applicazioni critiche nei trasporti, nell’assistenza sanitaria, per l’energia, i dati, la comunicazioni, l’intelligenza artificiale, l’IoT. Secondo uno studio pubblicato dall’Europarlamento un telefono cellulare contiene circa 160 circuiti diversi, mentre le auto elettriche ibride possono contenere fino a 3.500 circuiti.
Dopo il vulnus della pandemia, la guerra scoppiata in Ucraina ci ha messo il carico, aggravando ulteriormente la situazione sul fronte approvvigionamento. Per non parlare di incendi e siccità che hanno messo a dura prova le linee produttive e di conseguenza i tempi di consegna anche per il 2023.
Al punto che l’UE, partendo dal fatto che circa l’80% delle aziende europee che operano nel settore microchip ha sede fuori dall’Europa e che la sua capacità produttiva oggi è inferiore al 10% nel mondo, ha deciso di rafforzare le sue capacità di produzione per garantire la competitività futura e mantenere la leadership tecnologica e la sicurezza dell’approvvigionamento di semiconduttori.
Il Chips Act, segnale di un primo cambiamento
Come? Con il pacchetto European Chips Act (ECA) che incentiva il ritorno della produzione nel Vecchio Continente. Un partenariato pubblico-privato nell’ambito del programma Orizzonte Europa che mette a disposizione svariati miliardi di euro provenienti da finanziamenti dell’UE, degli Stati membri, dei paesi partner e del settore privato per rafforzare ricerca, sviluppo e innovazione in materia.
Gli obiettivi sono molteplici e ambiziosi: il pacchetto prevede entro il 2030 il raddoppio della quota di produzione europea dei semiconduttori dal 10 a 20%. Nel 2020 sono stati prodotti a livello globale circa mille miliardi di microprocessori.
European Chips Act, come funzionerà
L’European Chips Act (o Legge europea sui semiconduttori) punta dunque all’aumento della produzione. Il Parlamento europeo ha già confermato la propria posizione sulla proposta ed è pronto ad avviare i negoziati con i governi dell’UE.
Gli incentivi spingono tutta una serie di investimenti volti a sviluppare le tecnologie di prossima generazione. Favoriscono inoltre gli investitori che, con nuovi impianti situati ovviamente nell’area europea, potranno rispondere meglio allo shortage e garantire una supply chain più sicura. Infine, la localizzazione di tutte le fasi di sperimentazione, prototipazione e test sui semiconduttori. A un anno dalla sua emanazione, l’ECA dispone di un totale di 43 miliardi di euro a sostegno del nuovo modello di industria europea.
Prospettive interessanti secondo il Country Manager di GPBM Italy, Luca Negri con il quale abbiamo cercato di capire meglio gli scenari futuri del comparto elettronico.
Negri, a questo punto si tratta di reshoring o backshoring?
Il reshoring non è iniziato a causa della crisi pandemica, ma ne ha subito un’accelerazione. Da uno studio del 2022 condotto dal Politecnico di Milano sul processo di reshoring, si evince infatti come un discreto numero di aziende aveva già intrapreso il percorso in epoca pre-Covid. Reshoring non vuol dire esattamente riportare a casa significato che invece appartiene a backshoring.
Perché è necessaria questa precisazione?
Perché nelle informazioni dello studio emerge che il ritorno a una produzione italiana (sia totale che in parte) ha riguardato il 16,5% delle imprese, mentre il 12% è intenzionata a riportare la produzione sul territorio nazionale nei prossimi anni. Un dato che indica il trend dell’industria in epoca pre-pandemica è quello di oltre 170 aziende italiane che decidevano di riportare a casa la produzione.
Cos’è che ha spinto le aziende a questa decisione?
L’analisi dei motivi è interessante. Sulle oltre 170 unità, ha influito molto la necessità di migliorare il servizio al cliente, avere vicino il reparto di R&D per poter innovare prodotti e processi, ma la motivazione principale dichiarata da quasi 80 aziende, è la filosofia “Made In”. Oggi influiscono in maggior misura i costi logistici e i tempi di attesa e consegna effettivi, i quali per motivi più che logici, non corrispondono più a quelli attesi. Pertanto, il backshoring può influire positivamente in termini di tempi di consegna, risposte più rapide alle esigenze dei clienti con una produzione più lean e flessibile che riduce i costi. Reshoring e/o backshoring, tuttavia, presentano alcune problematiche legate alla difficoltà di reperire personale qualificato e alla necessaria riprogrammazione della supply chain.
Che va rimodellata? Ma sarà così semplice?
L’ECA non incentiva soltanto la rilocalizzazione ma una strategia coordinata a livello comunitario per una nuova supply chain, più stabile e possibilmente meno gravosa a livello economico. Il nuovo modello della catena di fornitura è composto da vari fattori, alcuni dei quali sono ancora un’incognita. In primis la rilocalizzazione o il backshoring risolvono alcuni problemi ma richiedono un’attenta analisi sulla parte di filiera che è venuta a mancare. Un altro aspetto riguarda le materie prime ottenute dalla rigenerazione che vanno ad affiancare quelle estratte a nuovo creando una filiera parallela. In riferimento alle batterie, le gigafactory europee costituiscono un nuovo anello della catena di fornitura poiché a fronte di un parziale reshoring della produzione, si ottiene un approvvigionamento diversificato. Cambia anche l’approccio delle aziende verso le modalità di approvvigionamento: se i processi produttivi di ultima generazione consentono di essere lean e flessibili, ora è necessario l’aumento scorte fino a quando non è possibile ridisegnare la parte di filiera con nuovi fornitori e/o terzisti.
Non meno importante sarà la digitalizzazione…
Certo. Avere sotto controllo tutta la catena di approvvigionamento consente di rispondere prontamente ai possibili eventi. Differenziazione e pianificazione rappresentano il presupposto per ridisegnare la supply chain ma anche per predisporne di nuove a livello parallelo, aumentando così l’efficienza produttiva e creando nuovi indotti. I segnali di cambiamento sono stati lanciati quindi cogliere l’occasione per rivedere l’intera supply chain non è più procrastinabile. Non ci si può aspettare un cambiamento in breve tempo, tuttavia, normative come quelle del Chips Act stanno cercando di agevolare le industrie a non essere più dipendenti da forniture localizzate e che hanno risentito parecchio degli ultimi eventi mondiali.
Qual è l’approccio di GPBM sul tema?
Intanto va detto che GPBM crede fermamente nel ricaricabile perché consente l’allungamento del tempo di vita delle batterie. Nell’uso domestico 500 ricariche equivalgono oltre 3000 batterie usa e getta. Se una batteria dura di più servirà una quantità inferiore di materie per produrne delle nuove. Il processo di rigenerazione sarà meno oneroso grazie a volumi contenuti da trattare. Per quanto riguarda le batterie industriali, GPBM si sta impegnando verso il processo di ricondizionamento per destinarle a una seconda vita. Il processo avviene solo quando è necessario e focalizzato sulle celle esauste. Anche questo contribuirà ad attenuare in qualche modo la carenza di materie prime.