E chi l’ha detto che l’Italia, condannata al declino, sia in svendita? Da cinque anni a questa parte le imprese italiane a guida famigliare hanno compiuto più di 100 acquisizioni all’anno oltre frontiera. La tendenza, peraltro, sta accelerando.
La barriera dei 150 deal è stata infranta nel 2018, ma è facile prevedere che il record sarà di breve durata: nei primi tre mesi del 2019 sono avvenute 40 operazioni cross-border che hanno coinvolto imprese italiane nelle vesti di cacciatrici.
Il dato serve a ridimensionare la paura, in buona parte artificiosa, per ”l’Italia in vendita” che tanta preoccupazione suscita in una parte del mondo politico: per una Pernigotti rilevata da imprenditori turchi (che, tra l’altro, hanno spostato la produzione di poche decine di chilometri) ci sono le cinque acquisizioni internazionali in quattro anni effettuate da Ferrero, nell’ambito di una strategia coraggiosa ed estremamente aggressiva, agli antipodi delle tradizioni del gruppo di Alba cresciuto per decenni in pratica solo per linee interne. Un cambio di rotta che non ha però intaccato lo spiccato carattere industriale del gruppo che ha scelto la strada dello shopping in Usa, racimolando per la strada biscotti e cioccolato, abbandonati per la via dalle multinazionali dell’alimentare alla ricerca di settori a più alto valore aggiunto.
Non è un comportamento isolato: ad ogni livello, le multinazionali italiane devono conquistare quote di mercato in un ambiente altamente competitivo dove il piccolo non è più bello. Occorre crescere, anche a costo di cedere porzioni di potere.
È quanto è pronto a fare uno dei grandi della tecnologia italiana, Alberto Bombassei, azionista di controllo di Brembo, che si è detto disponibile a ridurre la propria quota nella società di sistemi frenanti dal 53 al 30% in caso di operazioni di M&A purché (tramite il meccanismo del voto maggiorato appena adottato) la dinastia mantenga il controllo della nuova realtà. Grazie ad una nuova alleanza, Brembo avrà mezzi e competenze per competere nella rivoluzione che si profila nel mondo a quattro ruote.
Così come deve fare il gruppo Agnelli: alleanze e cessioni saranno necessarie sia per Fca che Cnh. Come si ripromette ancora Leonardo Del Vecchio, tutt’altro che intimidito dal conflitto con i soci Essilor. Bando ai vittimismi, insomma. C’è anche l’Italia che compra, non solo quella che vende (spesso a caro prezzo). Non sono rari i gruppi famigliari impegnati a far shopping. Interpump, la società di pompe idrauliche di Fulvio Montipò, per esempio, è la family company che ha messo a segno il maggior numero di acquisizioni dal 2014 in poi (ben 11). Seguito con otto transazioni da gruppi come la Ima della famiglia Vacchi (imballaggio) o la Lavazza (caffè) dell’omonima dinastia torinese, le cui acquisizioni negli ultimi anni hanno spaziato dalla Francia (il brand Carte Noire) agli Stati Uniti (Mars drinks) passando per la Danimarca.
Ma la lista si può allungare a Campari, Datalogic, Amplifon e così via. Non sono rare, dentro e (purtroppo) fuori il listino, le aziende di famiglia che garantiscono buoni risultati nel tempo grazie alla scelta di puntare sull’export in un’ottica di medio termine.
Sono loro la vera polizza contro la recessione. Senza bisogno della protezione di leggi un po’ridicole.