Confesso di non essere ancora riuscito a riprendermi dalla sorpresa per i risultati delle elezioni del 4 marzo. Anzi, la sorpresa e lo stupore sono aumentati nei mesi successivi: nonostante una condotta di governo inefficace e contraddittoria, manifestazione di un evidente disagio istituzionale, il supporto dei potenziali elettori continua ad essere di circa il 60%. A questo si è aggiunto lo sconcerto per la quasi altrettanto vasta approvazione nella gestione del caso Diciotti da parte del ministro degli interni. La sorpresa è spiegabile con l’improvvisa scoperta di essere un paese diverso da quello in cui si è stati educati e in cui si è trascorsa buona parte dell’esistenza e che si pensava di conoscere nei suoi indubbi pregi e nei suoi evidenti difetti.
L’affermazione repentina del sovranismo si spiega come risposta alle frustrazioni comprensibili di un elettorato deluso, disorientato, ma soprattutto irritato dalla mancanza di prospettive e dalle crescenti difficoltà della vita quotidiana che non riesce ad affrontare e di fronte alle quali si sente solo e indifeso. Una risposta irrazionale, generica, giustificata dal distacco della classe politica di ogni colore dai bisogni dei cittadini.
Alla sorpresa è subentrata ben presto la preoccupazione. I comportamenti litigiosi e gli slogan nazionalisti hanno creato la sensazione di un ritorno del fascismo, preoccupazione soprattutto acuta in chi proviene da decenni di antifascismo istituzionale, una specie di mantra che ci ha accompagnato per tutti gli anni del dopoguerra e che improvvisamente si è spento quasi senza lasciare tracce. Ma poche riflessioni sono sufficienti a convincerci che non si tratta di questo. La situazione in cui ci troviamo è molto peggio di una situazione di prefascismo. Infatti, il fascismo, e lo dico non temendo di poter essere sospettato di nostalgia per il passato regime, aveva una sua nobiltà, una ideologia, il recupero dell’antichità romana e imperiale come parte integrante della nostra storia e in generale una cultura del fare che ha prodotto l’Acquedotto Pugliese, la bonifica delle paludi pontine, la bonifica della Maremma, la costruzione dell’ EUR, per citare solo poche iniziative che oggi sarebbe impensabile realizzare nella prevalente cultura del no. Più in generale il fascismo ha sempre strettamente collegato al concetto di nazione il concetto di patria, con una forte accentuazione solidaristica volta a richiedere al cittadini Sacrifici e partecipazione per il raggiungimento di obiettivi presentati con una forte componente ideale, non solo, ma non ricordo che il fascismo ebbe mai assunto atteggiamenti antiscientifici, anzi ricordo un’insistenza addirittura fastidiosa delle scoperte del genio italico e dell’ eccellenza della nostra cultura. Ciò che viviamo oggi è molto peggio. Al concetto di Patria, naturalmente associato alla gratitudine, al sacrificio e alla solidarietà si è sostituito il più vago concetto di cittadinanza, privo di contenuti etici o culturali, ma strumento per ottenere un reddito non guadagnato. Gli elettori vengono motivati con grette promesse di remunerazione, perché questo sono il reddito di cittadinanza o la flat tax o le pensioni più favorevoli e questi obiettivi vengono perseguiti anche a costo di mettere in crisi la nostra partecipazione all’Europa e tutto questo con atteggiamenti di inutile litigiosità : in pochi mesi, come osserva Steve Bannon, che sta facendo il giro dei paesi europei per mobilitare i sovranisti di ogni provenienza citando l’Italia come un esempio, l’ Italia è riuscita a mettersi contro tutti senza per ora ottenere alcunché. Il motivo della nostra preoccupazione è più serio e più profondo. Tutti gli atteggiamenti e le dichiarazioni di chi ci governa sono volti alla chiusura, all’isolamento. Ciò che colpisce è l’assenza di qualunque valore ideale, di qualunque aspirazione a partecipare e contribuire alla definizione del futuro oltre a obiettivi di mera sopravvivenza. Emblematicamente in tutti questi mesi è mancato ogni accenno ai valori della resistenza, neppure per rafforzare il dichiarato antigermanesimo della nostra politica. Ciò che più preoccupa e deve veramente preoccupare è il progressivo allontanamento dal resto del mondo. Non solo per le conseguenze che questo sicuramente avrà sui commerci e sulla economia di un paese orientato all’esportazione da decenni, ma perché saremo presto chiamati a gestire i grandi sconvolgimenti prodotti dallo sviluppo delle tecnologie e che pochi paesi saranno in grado di gestire da soli, soprattutto quelli, come l’Italia, totalmente dipendenti dall’estero per le tecnologie di base e con un sistema educativo arretrato e immobile.
I segnali di pericolo sono innumerevoli, ma la più chiara indicazione di una percezione insufficiente e distorta dei problemi veri del paese è la dichiarazione del ministro dei Beni culturali che quasi propone di cancellare l’insegnamento della Storia dell’Arte perché la trovava insopportabile al Liceo: cioè forse l’unico settore in cui l’Italia ha espresso vere eccellenze di valore universale. Forse scherzava, ma non tanto e comunque ci da una indicazione della qualità della classe dirigente nelle cui mani siamo caduti.