La premessa è nota più o meno a tutti: l’iniziale euforia per le aziende – e per i titoli – “verdi” e “sostenibili” è stata sostituita da quella per l’intelligenza artificiale, ma non per questo ora occorre lasciar perdere quell’impegno per la sostenibilità che molte aziende si sono date.
Purtroppo, un impegno simulato e meno sincero costa meno sia in termini economici sia sotto l’aspetto della minor fatica da fare rispetto a cambiare abitudini e comportamenti o anche solo nel dover rinunciare a qualche pregiudizio di parte. Ecco allora il “greenwashing”, un modo di dire che identifica molto efficacemente coloro che si accontentano di dare una mano di pulito, in questo caso una “una mano di verde” alla propria attività perché oggi si fa così, salvo poi continuare a tenere immutati i propri comportamenti.
Essere sostenibili serve però allo sviluppo della propria azienda. Lo prescrivono regole sempre più stringenti, lo richiede la clientela in molti settori, se lo aspettano anche i lavoratori. L’impegno per la sostenibilità, infine, ripaga anche monetariamente, e questo è un motivo in più per sapersi muovere tra leggi e regolamenti.
Ne abbiamo parlato il 6 giugno dalle 12 alle 13.15 nel webinar di Economy con Rödl & Partner dal titolo “Perché il greenwashing non deve deprimere chi è sostenibile sul serio”che ha visto insieme a noi relatori di primissimo piano: Marcello Colla, pianificazione strategica Etica Sgr; Monica Davò, responsabile area tecnicogiuridica e rapporti con l’estero – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria; Ivano Giacomelli, segretario nazionale CODICI – Centro per i Diritti del Cittadino; Luigi Di Marco, segreteria generale ASviS – Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile; e per Rödl & Partner, Barbara Klaus, e Rita Santaniello, entrambe avvocate e partner.
Barbara Klaus, è la prima a prendere la parola e ad affronta con dettaglio il tema dal punto di vista legale ovvero del vero e proprio conflitto che coinvolge le aziende in un possibile contenzioso. Questo perché le aziende tentano di comunicare con molta attenzione il loro impegno dal punto di vista della responsabilità sociale. Al tempo stesso spiega che “in Germania c’è grande attenzione sul tema e gli istituti e le associazioni a tutela del consumatore sono molto impegnate per verificare la correttezza della comunicazione ambientale da parte delle aziende. In particolare, è stata prodotta una notevole quantità di giurisprudenza sul tema della comunicazione della neutralità e dell’impatto ambientale a zero CO2. Oggi le aziende devono quindi essere molto chiare nella loro comunicazione e non limitarsi a brevi e concisi claim privi di reali spiegazioni. Deve risultare ben chiaro che cosa è effettivamente stato fatto dall’azienda per ridurre il proprio impatto sull’ambiente, citando lo specifico dettaglio dell’attività o rimandando a un luogo di informazione più ampio, per esempio sul sito. Tuttavia, sono molti i casi in cui è stato sottolineato che l’informazione che rimandava al sito internazionale dell’azienda mancava per esempio di un’appropriata informazione in lingua tedesca”.
Ivano Giacomelli, segretario generale del Comitato dei consumatori – CODICI, partendo proprio dal punto di vista del consumatore prende la parola per delineare che cosa ci aspetta, qui nel nostro Paese, sul versante della tutela dei consumatori. O per meglio dire, approfondisce su quali strumenti potranno essere forniti direttamente al consumatore per potersi difendere nei casi di una comunicazione ingannevole.
Giacomelli premette “La sostenibilità viene inquadrata dal punto di vista più ampio di una sostenibilità ambientale che implichi anche una sostenibilità economica e una sostenibilità sociale. Si tratta quindi di inquadrare anzitutto l’abuso di fiducia nei confronti del consumatore come comportamento scorretto. Stiamo lavorando su due principali profili di questa scorrettezza. Il primo parte dal punto di vista della qualità del prodotto: se qualifico in modo eccessivo il prodotto con claim ambientali non esistenti nella realtà ti sto vendendo un prodotto di una qualità diversa da quello che ti ho rappresentato e tu hai acquistato. L’altro elemento invece riguarda la scorrettezza e l’ingannevolezza e inquadra il comportamento contrario alla diligenza professionale e la capacità di falsare in maniera rilevante e apprezzabile – indicati nel codice del consumo – il comportamento del consumatore”.
Ma conclude “Qui il tema è però proprio quello di inquadrare la misura in modo da quantificare il danno e inibire il messaggio. Non è semplice ed è per questo che ci sono ancora poche sentenze”.
Tocca a Monica Davò, dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria illustrare la casistica esistente. “Sul fronte dell’Autodisciplina c’è casistica abbastanza abbondate, i primi di trent’anni fa, e oggi molta moral suasion con un’attività più spostata sull’attività del Comitato di Controllo che sul Giurì vero e proprio. L’attenzione verso la pubblicità ambientale è alta. Le regole per una corretta e responsabile informazione dei consumatori sono sottoscritte da tutti gli attori del grande ambito della pubblicità commerciale. È un’attività che si svolge in tempi molto rapidi e spesso, quando è il caso, anche bloccando le campagne in atto. Gli organi che mettono le norme del nostro Codice sono tutti soggetti indipendenti.
Sul Green Claim in particolare abbiamo una specifica norma e si riferisce a tutte quelle norme che implicitamente o esplicitamente esprimono o suggeriscono una relazione tra prodotto e ambiente, che il prodotto sia per questo migliore o che lo sia l’azienda per il suo impegno ambientale. Dal 2014 la norma sancisce un preciso onere informativo: deve fornire informazioni veritiere, chiare e comprensibili, soprattutto specifiche consento al consumatore di comprendere di fronte a quale vantaggio si trova con quel prodotto: processo produttivo, qualità, packaging. I casi banditi sono tutti quelle espressioni generiche di tipo perentorio e assoluto quali “impatto zero”, “amico dell’ambiente” e altre simili. Le sentenze relative al green washing sono consultabili sul nostro database online”.
È ora Luigi Di Marco, di Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile a illustrare qual è in questo momento la situazione effettiva sul tema. Al lui Sergio Luciano chiede se c’è una consapevolezza a livello delle aziende su cosa significhi un impegno serio e cosa appunto il Green Washing. “È un bene, spiega Di Marco, che il Green Washing sia entrato nel dibattito. Questo anche se non tutti sanno che esiste una proposta di legge europea molto interessante. Comunque sia è un segnale della sensibilità che le aziende iniziano a sviluppare sul tema. È interessante che le aziende facciano Green Washing è un segnale di un interesse, vale a dire che le imprese colgono che il consumatore cerca qualcosa che non tutte le aziende sono in grado di dare. Ovviamente non va bene che ci siano imprese che invece non vadano verso un vero impegno ambientale. C’è un impegno di progetto legislativo comune europeo per far sì che le aziende stiano sul mercato con le stesse caratteristiche di comunicazione, di certificazione e di marchio. Sul Green Label EU però va detto che non ha una copertura dei tanti prodotti merceologici che potrebbe potenzialmente avere. La stessa Autorità Garante di concorrenza potrebbe forse estendere il proprio ambito anche quello ambientale”.
Sergio Luciano chiede invece a Rita Santaniello: “Se fossi un imprenditore avessi un prodotto serio e fosse contrastato da un concorrente poco serio che palesemente fa green washing, cosa posso fare? C’è un quadro giuridico in formazione e ci sono le prassi ma concretamente cosa faccio per difendermi? Rita Santaniello risponde che la strada primaria è quella per concorrenza sleale. Da una parte cerco una sentenza inibitoria e su questo piano è abbastanza agevole ottenere tutela perché nel 60% dei casi risulta effettivamente il green washing sussiste e siamo ormai prossimi a una vera e propria “black list” delle affermazioni sleali e inappropriate. Ma qui rientrano anche i vari “bollini di certificazione” che fanno ritenere che esista uno standard verificato ma in realtà inesistente. Diverso è il discorso per quanto attiene il pregiudizio commerciale e l’ottenimento di una sanzione e di un rimborso. Ma qui c’è oggettivamente un terreno più accidentato”.
Sergio Luciano prende la parola. “Diciamo che il fenomeno Greta e poi l’appello di Papa Bergoglio hanno sviluppato un grande consenso e un grande fenomeno imitativo che ha coinvolto le grandi aziende. Lo diciamo introducendo Marcello Colla, Strategic planning and sustainability, manager di Etica SGR e che rappresenta il vero tribunale incisivo che è quello dei mercati che possono esprimere uno stigma di fatto. Noi apprezziamo Etica perché non nasce oggi. Ecco perché ci rivolgiamo a lui per avere un giudizio. Sul fatto abbastanza sconcertante che stiamo ancora assistendo a una favolosa retromarcia di fondi che avevano investito nel settore green e che se ne sono ritirati, dopo mesi e anni in cui si erano venduti per green. E’ anche vero che la stessa Unione europea ha cambiato dopo pochi mesi la stessa tassonomia che aveva promulgato, includendovi gas e nucleare. I mercati sono un tribunale di fatto che può dare premi e punizioni a chi fa bene o a chi fa male?”
Dice Colla: “I mercati possono essere un luogo di facilitazione di determinati processi, più che di un giudizio, visto che Accordi di Parigi da un lato e SDG dall’altro il legislatore si è reso conto della necessità di coinvolgere i mercati finanziari. Non solo perché sono essi stessi promotori di servizi green ma perché sono in grado di stimolare parecchio il comportamento delle imprese nelle quali investono e questo ha dato origine a SFDR – il regolamento relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore servizi finanziari inserito nel Piano d’azione UE per la finanza sostenibile – e che ha un po’ definito o meglio ridefinito cosa si intende per investimento sostenibile. Etica lo aveva già fatto in realtà, già nel 2001. Ma il prodotto è complicato da gestire con molte informazioni e quindi qualcuno, anzi parecchi, hanno fatto un passo indietro. La normativa oggi è molto stringente. Anche noi abbiamo dovuto ridefinire alcuni dei nostri prodotti, rispetto all’art. 9 uno dei più rigorosi, perché inventiamo in titoli di stato. L’altro punto è chi emette i prodotti: chiunque può proporre prodotti sostenibili contemporaneamente a quelli non sostenibili. In questo senso vediamo che forse manca una vera strategia. Un atteggiamento strategico e realmente orientato al lungo periodo a nostro parere paga e paga anche per le aziende. Queste aziende vengono premiate perché hanno guardato in anticipo al lungo periodo e non si trovano a dover rincorrere. Chi guarda a tuti gli aspetti ESG investe di più e guadagna di più”.
Sergio Luciano riprende: “Noi diciamo che il greenwashing non deve deprimere chi affronta il tema ambientale facendo sul serio. Ma qualcuno potrebbe dire: meglio fare il minimo. Chiedo invece: possiamo sostenere chi è sostenibile sul serio a non mollare?”
Barbara Klaus, “Molte associazioni stanno iniziando a mettere in discussione green claims dal punto di vista delle compensazioni, quelle attività di aziende che acquistano prodotti climatici per appunto compensare ciò che non riescono a svolgere nelle attività ordinarie. Ma le associazioni dicono che queste attività, come la riforestazione, non sono adeguate. D’altro canto però tutte queste aziende hanno speso sottoponendosi al vaglio di enti di certificazione e vengono ora sottomessi non a degli standard ma alla sentenza di un giudice. Questo però disincentiva chi ha già speso e ha buone intenzioni”.
Sergio Luciano: il tema dei consumatori è importante. Quale ruolo e peso hanno?
Ivano Giacomelli: “L’opinione del giudice crea un elemento di incertezza. D’altro canto il consumatore medio ha modificato i suoi comportamento e di fatto preferisce il prodotto sostenibile. È una nuova fetta di mercato, prima non esisteva. Il supermercato oggi è lo specchio della situazione: vediamo consumatori che coscientemente spendono di più per un prodotto green. Di fatto dopo il conflitto in essere è stato rimesso in gioco il nucleare. Ma se il mercato si muove come vuole, è giusto che il legislatore possa orientare i comportamenti positivi inibendo o sterilizzando i comportamenti ingannevoli. Da questo punto di vista, l’Autorità Garante per la concorrenza potrebbe intervenire con forti sanzioni pecuniari”.
Luigi Di Marco torna sulla convenienza delle imprese: “Non c’è convenienza nel fare il minimo, si rischi di essere fuori mercato. Serve lungimiranza e innovazione, consapevoli che ci sono nicchie di mercato che possono aprirsi”.
Rita Santaniello, ricorda con una sorta di claim positivo che “la funzione sostenibilità non può risiedere all’interno dell’ufficio marketing. E’ questione di sostanza, competitività, innovazione”.
Monica Davò: “Se tutto è sostenibile, niente è sostenibile. Ma la parola chiave contro il green washing è la trasparenza. L’importanza di comunicare resta sempre e comunque in un’ottica più ampia”.
Marcello Colla: “I rischi, come investitori, sottolineiamo i rischi legati alla sostenibilità aziendale. Nell’elenco dei rischi del World Economic Forum i primi quattro sono di tipo ambientale, i primi tre di tipo climatico. Significa che chi tiene in considerazione questi aspetti è più attrezzato e resiliente. Lancio una provocazione: qualcuno può essere scoraggiato da un giudice nell’utilizzare alcuni claim, dico che in un certo senso ben venga: potrà favorire chi nel settore ambientale e nella sostenibilità investe realmente. Se resto sempre sulla frontiera della sostenibilità potrò avere un vantaggio comparato a quello dei miei concorrenti”.