di Alessandra Centinaio e Andrea Venegoni

La fine del primo ventennio del Ventunesimo secolo è stata segnata da quella che è stata definita dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) “la più grave pandemia degli ultimi cento anni”. Le conseguenze dell’emergenza sanitaria sono state particolarmente rilevanti non solo per quanto concerne la perdita di vite umane, ma anche in termini di impatto economico. Nei Paesi europei, già provati dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla crisi dei debiti sovrani del 2011-2012, la diffusione della malattia Covid-19 e le misure restrittive adottate al fine di limitare il numero dei contagi hanno innescato, infatti, la più profonda recessione dal secondo conflitto mondiale a oggi.

Come tutte le economie dell’area euro, l’Italia è stata profondamente colpita dalle conseguenze economiche generate dall’emergenza sanitaria, che, ponendo fine a una timida fase espansiva iniziata nel 2015, ha portato a una contrazione del prodotto interno lordo (Pil) del 9,0% nel 2020 (Istat, 2022).
La crisi legata alla pandemia ha colpito, infatti, un sistema economico in cui, già negli ultimi mesi del 2019, erano presenti segnali di rallentamento le cui cause erano riconducibili alle note criticità relative alla sostenibilità del debito pubblico e ad alcune debolezze strutturali peculiari del sistema stesso. In particolare, secondo quanto riportato nel Rapporto sulla competitività dei settori produttivi (2022) redatto dall’Istituto nazionale di statistica (Istat), sul finire del 2019 il livello del Pil italiano in volume risultava essere ancora inferiore del 3,8% rispetto al valore registrato nel 2007, un dato non allineato alle performance di Stati europei come Francia e Germania, i quali riportavano un +12,1% e un +15,6% rispettivamente, e Spagna (+7,6%), che, diversamente al nostro Paese, aveva iniziato un deciso percorso di ripresa in uscita dalla crisi dei debiti sovrani.

Nonostante la contrazione del Pil delle principali economie innescata dalla diffusione del virus sia stata molto profonda, la durata di questa fase recessiva è stata relativamente breve e, grazie all’accelerazione delle campagne vaccinali da parte delle autorità nazionali, il 2021 è stato un anno di ripresa, seppure con alcune differenze tra i diversi Paesi. Nell’area euro, ad esempio, Francia e Italia hanno registrato una fase di forte espansione, con la prima che è riuscita a chiudere completamente il divario nel livello del Pil rispetto all’ultimo trimestre del 2019 e la seconda che ha quasi raggiunto i livelli pre-crisi.  Al termine del 2021, Germania e Spagna, invece, non avevano ancora colmato il gap, riportando livelli di Pil ancora significativamente inferiori a quelli precedenti alla pandemia.  L’adozione di misure eccezionali da parte delle autorità europee è stata sicuramente fondamentale nell’imboccare questo sentiero di ripresa. La Banca Centrale Europea (Bce) ha, infatti, introdotto il Programma di acquisto per l’emergenza pandemica, il cosiddetto Pepp, da 1.850 miliardi di euro con lo scopo ultimo di facilitare cittadini, imprese e amministrazioni pubbliche nell’accesso al credito necessario ad affrontare la crisi. Questa manovra si è inserita nel solco di anni di interventi finalizzati ad iniettare liquidità nel sistema, che hanno portato a una forte riduzione del costo del danaro, favorendo in molti casi gli investimenti da parte delle imprese. In tandem con la Bce si è mossa la Commissione Europea con il NextGenerationEU, uno strumento da oltre 800 miliardi di euro, progettato principalmente per creare un’Europa più verde, digitale, resiliente e adeguata alle sfide presenti e future, e declinato dai singoli Stati in programmi nazionali (il noto Pnrr per l’Italia). Questi ultimi sono stati vincolati al rafforzamento dei sistemi economici mediante il perseguimento di una maggiore sostenibilità ambientale, circolarità dell’economia e digitalizzazione.

A partire dagli ultimi mesi dello scorso anno, tuttavia, sono emerse alcune criticità che rischiano di compromettere il percorso di recupero dell’economia mondiale, quali la comparsa di varianti particolarmente contagiose che hanno condotto all’adozione di nuove misure di contenimento, l’emergere di “colli di bottiglia” nelle catene del valore, la difficoltà nell’approvvigionamento di materie prime e semilavorati da parte dell’industria e il rafforzamento delle pressioni inflazionistiche.

In questo contesto, si è innestato, inoltre, il conflitto russo-ucraino, che, oltre a costituire una tragedia in termini umanitari e a cagionare forti tensioni da un punto di vista geo-politico, ha contribuito a ridurre l’offerta e ad alimentare la risalita delle quotazioni delle materie prime, concorrendo all’incremento dei prezzi delle commodities energetiche e alimentari che già avevano mostrato un forte rialzo nei mesi antecedenti. La formazione di strozzature nelle catene del valore e il conseguente malfunzionamento delle reti di approvvigionamento di materie prime e semilavorati nei settori industriali, infatti, già a partire dall’autunno del 2021 stavano causando rallentamenti nelle produzioni a livello mondiale e, conseguentemente, innescando un rapido incremento dei prezzi.

Proprio le dinamiche evolutive delle catene globali del valore (Cgv) sono al centro della metamorfosi che la globalizzazione sta sperimentando negli ultimi anni, un paradigma che è andato progressivamente aggiornandosi a seguito delle modifiche intervenute nel quadro geopolitico e nella configurazione della domanda e del progresso tecnologico.

Quando si parla di Cgc, si intende l’organizzazione dei processi produttivi in cui parti e componenti dei beni finali sono prodotte in stadi separati e in aree del pianeta geograficamente distanti per poi essere assemblate successivamente in un luogo finale o in sequenza lungo la catena di fornitura. In base a questo paradigma produttivo, che ha costituito una delle colonne portanti della prima fase del processo di globalizzazione, la produzione è stata parcellizzata e dispersa verticalmente a livello globale. Questo è stato possibile grazie, da un lato, all’introduzione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) che hanno ridotto drasticamente i costi di spostamento delle idee e facilitato il coordinamento di attività complesse a distanza, e, dall’altro, al netto miglioramento che le reti logistiche hanno sperimentato negli anni, che ha permesso di accorciare i tempi di spedizione in tutto il mondo delle parti e dei componenti necessari per assemblare i prodotti finali. Le imprese, potendo combinare perfettamente i beni intermedi prodotti in diversi Paesi in un prodotto finale, per anni hanno favorito la creazione di una rete internazionale di fornitori specializzati in una specifica fase produttiva, riuscendo così a sfruttare le differenze esistenti tra i Paesi nei costi del lavoro e degli altri fattori produttivi e acquisendo, di conseguenza, un vantaggio competitivo.

La crisi da Covid-19, tuttavia, ha portato alla luce alcune criticità e i rischi connessi a strutture produttive così complesse. Molti settori, infatti, hanno assistito all’interruzione delle catene di approvvigionamento di materie prime e semilavorati dovute alle misure di restringimento sociale adottate dai governi e, qualora non vi sia stato un completo arresto, le produzioni hanno subito forti ritardi che si sono propagati lungo tutti gli stadi produttivi, rendendo evidente la capacità delle Cgv di contribuire alla trasmissione degli shock. A partire dagli ultimi mesi del 2020, inoltre, il rimbalzo della domanda internazionale ha ulteriormente aggravato i ritardi, portando alla creazione di veri e propri colli di bottiglia nelle Cgv che si sono protratti per tutto il 2021 e che hanno ostacolato il normale funzionamento delle catene (a tal proposito, si veda l’andamento dell’indice di pressione sulle catene globali del valore – Gscpi – pubblicato dalla Federal Reserve Bank di New York).

La diffusione del virus e le sue conseguenze, tuttavia, hanno solo esacerbato e accelerato un processo di trasformazione che lo schema organizzativo e competitivo delle Cgv stava già sperimentando da tempo. Secondo i dati contenuti nel rapporto del 2019 redatto dal McKinsey Global Institute, “Globalization in transition: the future of trade and value chains”, a partire dal 2007 sono stati riportati tassi negativi di crescita per la cosiddetta trade intensity (intensità degli scambi), ovvero la quota di produzione che viene scambiata, in quasi tutte le Cgv, soprattutto in quelle più complesse. Ad esempio, se tra il 2000 e il 2007 nell’ambito delle Cgv dell’Automotive e del Tessile e Abbigliamento la variazione della trade intensity è stata positiva, rispettivamente di circa +9% e +8%, tra il 2007 e il 2017 è stata negativa, di circa -8% e -10%. Inoltre, nonostante il commercio mondiale sia cresciuto in termini assoluti, nel decennio tra il 2007 e il 2017 la quota di produzione che ha attraversato i confini internazionali si è ridotta di 5,6 punti percentuali (dal 28,1% al 22,5%). Queste evidenze sono la conseguenza dell’intervento di alcuni importanti driver di cambiamento che negli ultimi anni hanno inciso e sono destinati a incidere sulla struttura di questi paradigmi produttivi. In primo luogo, si è verificato un ribilanciamento settoriale, dovuto alla crescita del peso della componente dei servizi (la cosiddetta Servitization): nell’ultimo decennio circa il commercio internazionale di servizi è cresciuto del 60% in più rispetto al commercio industriale (McKinsey Global Institute, 2019), aumentandone l’importanza nella struttura della catena di fornitura. In secondo luogo, l’architettura organizzativa delle Cgv ha subito una ristrutturazione a seguito dell’impatto dell’innovazione sulla struttura dei costi di produzione all’interno. Dopo essersi sviluppata per anni in senso verticale, integrando i canali di approvvigionamento e vendita in un’unica filiera globale, l’architettura delle catene del valore sta vivendo una fase di espansione orizzontale, votata alla razionalizzazione delle risorse ed orientata allo sharing di funzioni e, quindi, di costi. Ad esempio, dal momento che l’innovazione ha progressivamente assunto un ruolo centrale per la competitività delle imprese, quest’ultime hanno iniziato a condividere le funzioni di ricerca e sviluppo e ad adottare una strategia di open innovation lungo le catene del valore, al fine di massimizzare la competitività dell’intera filiera riducendo i costi. Prima ancora dell’avvento della pandemia, c’erano poi segnali di un’inversione di tendenza verso una maggiore “geo-concentrazione” delle catene del valore, in una progressiva tendenza alla “de-globalizzazione” di alcuni processi produttivi. Il fenomeno noto come reshoring manifatturiero ha in parte caratterizzato, infatti, gli anni antecedenti la pandemia: sia le multinazionali che le piccole imprese hanno iniziato a riportare in patria alcune delle attività produttive precedentemente delocalizzate. Sono numerose le motivazioni addotte per spiegare questa inversione di tendenza, tra le quali lo scarso livello qualitativo dei prodotti fabbricati nei Paesi in cui si è delocalizzato, la riduzione del divario del costo del fattore lavoro tra i Paesi ospitanti e quelli di origine e l’impatto dei tempi di consegna sulla produzione. In particolare, per quanto riguarda la prima, soprattutto in quei settori in cui la percezione della qualità dei prodotti da parte dei consumatori influenza le loro scelte d’acquisto, molte imprese hanno deciso di rimpatriare alcune attività produttive alla ricerca di una qualità superiore. Si aggiunga che negli ultimi anni negli Stati Uniti e nei Paesi europei le scelte di acquisto sono state sempre più fortemente influenzate dall’immagine del marchio e dal Paese di origine del prodotto, con il cosiddetto “effetto made-in“, l’effetto per cui la qualità percepita è connessa al luogo di produzione, soprattutto per i segmenti di fascia alta, che è emerso come particolarmente rilevante nel guidare le preferenze dei consumatori. L’attribuzione di una sempre maggiore importanza da parte dei clienti ai servizi forniti dalle imprese, inoltre, ha contribuito alla decisione di riportare alcune operazioni come quelle commerciali in patria: la riduzione delle distanze consente di migliorare i servizi offerti e di rispondere con maggior prontezza alle loro esigenze.

In questo quadro, caratterizzato dai tre macro-driver descritti – la Servitization, la ristrutturazione delle catene del valore e la nuova impronta geografica delle stesse – è intervenuta per l’appunto la pandemia, accelerando il processo di evoluzione che le Cgv stavano già sperimentando. Dal momento che non tutti i Paesi partecipano allo stesso modo alle catene del valore, per quelli che ricoprono un ruolo centrale valutare attentamente l’evoluzione di questi paradigmi produttivi non solo è necessario, ma vitale. A tal proposito, nel 2019, l’Italia si è classificata nona nella partecipazione alle catene del valore (calcolata come rapporto tra il volume di esportazioni legate alle Cgv e le esportazioni totali del singolo Paese) e l’importanza che le Cgv rivestono nei flussi commerciali italiani è passata dal 43,6% del 2010 al 47,9% del 2019 (Fondazione Manlio Masi – Osservatorio nazionale per l’Internazionalizzazione e gli Scambi, 2021), valori che debbono indurre riflessioni sul futuro delle imprese italiane per quanto concerne la partecipazione a queste strutture produttive. In particolare, rispetto ai driver descritti, il nostro Paese presenta delle criticità che richiedono degli interventi e delle riforme strutturali. In primo luogo, si tratta di un’economia ancora troppo incentrata sul settore secondario, ovvero su manifattura e trasformazione. Sempre più valore, tuttavia, deriva dai servizi piuttosto che dalla produzione, conseguenza di cambiamenti nelle abitudini dei consumatori, del processo di digitalizzazione e di una quota sempre crescente di transazioni effettuate su piattaforme online, ragione per cui si sta assistendo e si assisterà nei prossimi anni a fusioni e acquisizioni di attori che si trovano al di sotto della catena del valore finalizzate a interiorizzarne le funzioni in cui viene creato il valore più alto. È fondamentale, pertanto, che anche le imprese italiane si muovano in tal senso, aprendosi maggiormente al terziario, soprattutto se tecnologicamente avanzato. In secondo luogo, le imprese italiane sono storicamente afflitte da una bassa produttività, criticità legata ad una molteplicità di fattori, tra i quali spiccano il sistema di istruzione e il mercato del lavoro. Se a livello europeo, l’indice Skill Mismatch, che misura il disallineamento tra le competenze domandate dalle imprese e quelle offerte dai lavoratori, è cresciuto del 2% dal 2008 al 2018, in Italia si è registrato un incremento pari al 5,5%, a dimostrazione della difficoltà, da un lato, del sistema scolastico di fornire una preparazione allineata alle esigenze delle imprese e, dall’altro, da parte di queste ultime e delle autorità nazionali di investire in politiche volte alla formazione continua di chi è già nel mondo del lavoro. I compiti e i lavori del futuro, tuttavia, saranno caratterizzati contemporaneamente da una maggiore specializzazione e flessibilità e sarà richiesto ai lavoratori di padroneggiare abilità interdisciplinari e adattarsi a processi e tecnologie di produzione in rapida evoluzione. Per poter soddisfare queste esigenze, è, pertanto, necessaria l’adozione di riforme strutturali sia del sistema educativo che del mercato del lavoro, che promuovano la formazione continua sul lavoro e la flessibilità dei lavoratori. La competitività non solo delle imprese e delle industrie, ma dell’intero sistema economico passa necessariamente da quest’ultime.

L’Italia e il suo sistema produttivo, infine, sono contraddistinti da una polarizzazione delle fonti di approvvigionamento, come nel caso energetico. La scelta di non diversificare i fornitori di materie prime e semilavorati presenta rischi evidenti, che la pandemia e il recente conflitto russo-ucraino hanno ulteriormente evidenziato, ma che le ondate di protezionismo nazionale e le guerre commerciali degli scorsi anni avevano già fatto emergere. Per questa ragione, è auspicabile un ripensamento della rete di fornitura sia da parte delle imprese che delle autorità nazionali.

Complessivamente, nei prossimi anni si assisterà ad una competizione tra Paesi e regioni per attrarre nuove attività di impresa, il cui risultato determinerà le prospettive di sviluppo economico territoriale per il prossimo decennio. Poiché le scelte di localizzazione si basano sempre più, oltre che su aspetti fiscali e normativi, sulla qualità della forza lavoro locale e sull’efficienza delle infrastrutture, sia fisiche che digitali, sono essenziali politiche capaci di rispondere a queste sfide, non limitandosi ad affrontare singole questioni separatamente, ma costruendo un quadro globale in cui gli interventi mirati a rilanciare il mercato del lavoro, le innovazioni tecnologiche e la competitività siano coerentemente combinati per fornire al sistema tutti gli strumenti necessari per competere ed evolversi.

Bibliografia
Fondazione Manlio Masi. Osservatorio Nazionale per l’Internazionalizzazione e gli Scambi. (2021). L’Italia nelle Catene Globali del Valore
Istat. (2022). Rapporto sulla competitività dei settori produttivi – Edizione 2022
McKinsey Global Institute. (2019). Globalization in transition: the future of trade and value chains
Ocse. (2020). Health at a Glance: Europe 2020