Lo sfondo che ha accompagnato la tavola rotonda di Lemanik sull’attuale braccio di ferro tra Donald Trump e Xi Jinping nella sala convegni del Four Roses di Milano, è stata un’immagine della Muraglia Cinese. Patrimonio dell’Unesco dal 1987, l’opera fu cantierizzata nel 215 a.C. dalla dinastia Ming per difendere la Cina dalle tribù della Manciuria e della Mongolia con cui l’impero era in guerra.
Un’immagine non casuale che, in qualche modo, sintetizza la visione che la società di asset management ha dell’attuale diatriba tra le due superpotenze.
“I veri motivi del rallentamento economico globale, che si è accentuato tra settembre 2018 e marzo 2019, non sono da ricercare nella guerra commerciale Usa-Cina. Anzi. Nel 2018 l’interscambio è cresciuto del 10%. Le vere ragioni risiedono nella decisa contrazione del credito al consumo negli Stati Uniti da un lato, e nelle difficoltà della Cina sul fronte della domanda interna, dall’altro. Questo dicono i dati macroeconomici, anche se la narrazione politica si concentra sulla guerra commerciale, a cui si può attribuire soltanto la contrazione dell’export di febbraio-marzo 2019”. Lo ha detto Maurizio Novelli, gestore del Lemanik Global Strategy Fund, durante il confronto con il vicepresidente dell’Osservatorio Asia, Romeo Orlandi per il quale, la Repubblica Popolare starebbe tutt’altro che subendo i colpi inferti dal competitor-partner commerciale a stelle e strisce.
“Se è vero che i nuovi dazi decisi da Trump mirano a indebolire la valuta cinese è anche vero che soltanto l’1% degli scambi commerciali della Cina sono in reminbi”, ha detto il rappresentante dell’organismo che raccoglie imprese italiane e dell’Asia Orientale. “Xi Jinping ha altri mercati a cui fare riferimento per alimentare il proprio export”.


Le vere ragioni dello scontro risiedono nella decisa contrazione del credito al consumo negli Stati Uniti da un lato, e nelle difficoltà della Cina sul fronte della domanda interna, dall’altro (M. Novelli)
Sulla stessa linea d’onda è Novelli, per il quale il tema del potere contrattuale monetario dimostrerebbe come la stretta degli Usa agli scambi commerciali starebbe producendo effetti non così importanti come si potrebbe pensare.
“I dazi americani hanno avuto come effetto sul reminbi una svalutazione del 10%, cosa che non piace agli Usa”, ha detto il gestore, facendo riferimento al conseguente rafforzamento dell’export del paese asiatico. “La Cina punta a creare una vera e propria area valutaria asiatica, oltre che a fondare una sorta di banca per lo sviluppo economico regionale. Una sorta di alternativa al Fmi”.
In realtà, i due principali motori della crescita mondiale sono in evidente difficoltà a causa del debito accumulato, perché la crescita che sono riusciti a generare negli ultimi anni è stata eccessivamente basata sull’indebitamento. Nel 2018 il debito estero degli Stati Uniti ha raggiunto il 50% del Pil contro il 22% del 2007: un ritmo di creazione di debito insostenibile.
“Inoltre”, ha proseguito Novelli, “la qualità di questo debito è decisamente la peggiore di sempre: il 30% dei corporate bond sono high yield; il 50% dei bond con rating investment grade sono BBB (nel 2007 erano il 25%); il 27% circa del credito erogato dal sistema finanziario è Subprime (nel 2007 era il 24%), i leverage loans sono raddoppiati rispetto al 2007 e sono pari al 6% del Pil Usa”.
Questo meccanismo richiede un’esagerata allocazione di risparmio globale sugli asset americani (credito e equity) e sul dollaro, ed espone l’intero sistema a un’elevata concentrazione di rischio sui mercati finanziari Usa.


Se è vero che i nuovi dazi mirano a indebolire la valuta cinese è anche vero che soltanto l’1% degli scambi commerciali della Cina sono in reminbi. Xi Jinping ha altri mercati a cui fare riferimento per alimentare il proprio export (R. Orlandi)
Attualmente gli investitori esteri detengono il 50% di tutti i corporate bond Usa, il 30% dei Titoli di Stato e il 25% della capitalizzazione del mercato azionario Usa. Si tratta della più elevata allocazione di risorse dall’estero riscontrata solo nel 1928 e nel 1999 (purtroppo le coincidenze temporali non sono di buon auspicio).
“E’ praticamente impossibile mantenere questo ritmo di creazione di debito per molto tempo”, sottolinea Novelli. “Il problema è che senza i debiti di Cina e Usa l’economia mondiale non riesce a crescere in modo adeguato e quando il debito raggiunge il limite di sostenibilità, l’economia rallenta e rischia di entrare in recessione”.
La vulnerabilità o la forza della crescita internazionale dipende da quanto debito riesce a fare ancora il settore privato americano per sostenere i consumi mondiali. Il problema è che oggi abbiamo la percentuale più alta mai registrata nella storia dell’economia di credito di pessima qualità.
L’assorbimento di questa colossale massa di risorse finanziarie per sostenere un modello di crescita simile, comporta che i paesi esportatori di capitale verso l’America siano condannati a crescere meno. Anziché finanziare con i loro avanzi politiche fiscali espansive o una espansione del loro debito interno per sostenere consumi e investimenti, sono costretti o preferiscono finanziare quelli americani.
Europa, Giappone e Cina detengono oggi asset finanziari degli Stati Uniti pari a oltre il 35% del Pil Usa
Europa, Giappone e Cina detengono oggi asset finanziari degli Stati Uniti pari a oltre il 35% del Pil Usa, fenomeno di concentrazione del rischio mai verificatosi in modo così elevato nella storia degli Stati Uniti dal 1928.
Il problema di questo “modello di crescita” è che attualmente nessuno dovrebbe mai disinvestire, neanche parzialmente, dai mercati finanziari americani per continuare a finanziare una crescita che non può fermarsi, ma che per proseguire deve fare sempre più debito e a tassi più elevati che altrove per garantire anche un dollaro forte.
Tutti si aspettano però una ripartenza del ciclo economico, grazie a una nuova spinta sul debito di America e Cina, ma i cinesi, al contrario, proseguono nella riduzione delle posizioni sui treasury Usa e riportano a casa le riserve valutarie per contrastare il rallentamento dell’economia.
Questo meccanismo innesca una riduzione del finanziamento al debito americano e pone potenziali problemi per la tenuta del dollaro, che a questo punto deve sperare in una crisi nell’area Euro per rimanere forte e continuare ad attirare capitali. Quello che sembra ora molto probabile è che la tanto attesa ripresa nella realtà non ci sarà.
Gli stimoli implementati dalla Cina servono a contenere il rallentamento e non sono certo finalizzati a crescere oltre quanto è stato prefissato, questo perché la Cina è attualmente orientata a mettere sotto controllo un debito interno che rischia di renderla estremamente vulnerabile. Il credito al consumo negli Stati Uniti, poi, è in rallentamento da diversi mesi e ha procurato una frenata nei consumi interni e negli ordini di beni durevoli.
“Se la crescita americana deve essere finanziata con credito sempre più speculativo, come accade ora, significa che per avere più crescita il sistema deve esporsi a un rischio sempre maggiore, ma con tassi sempre bassi. Però, tassi bassi e alto rischio di credito non durano in eterno”, ha concluso Novelli. “L’economia Usa non è forte, anzi è estremamente vulnerabile ai flussi di capitale che in questo momento sono concentrati come mai prima sugli asset americani e che difficilmente possono aumentare ulteriormente. Probabilmente il rischio di sistema non è mai stato così alto”.