Una Pmi che ha compiuto un secolo l’anno scorso, che fa parte della storia del costume italiano e che in tempi recenti ha avuto la capacità di rinnovarsi e di puntare con successo sull’internazionalizzazione. Chi non ha mai scritto almeno una volta con una penna stilografica Aurora? Abbiamo sentito Cesare Verona (nella foto), presidente e amministratore delegato di Aurora, nel pieno dell’emergenza da Coronavirus, poco dopo la chiusura forzata della manifattura, una filanda del Settecento riconvertita nei pressi di Torino. «Devo dire che questa è un’intervista difficile. Da una parte bisogna mantenere il sano e saggio ottimismo dell’imprenditore, dall’altro ragionare sulle difficoltà presenti che sono tante, ma soprattutto su quelle future che saranno superiori, almeno per chi fa impresa. Le difficoltà arriveranno dopo, non sono quelle di adesso» ha detto Verona. All’interesse per l’evoluzione di questo marchio storico si aggiunge quello di capire come una tipica Pmi italiana reagisce di fronte all’impensabile enormità della pandemia.

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A partire dal 21 novembre ampliata l’operatività dei Ristori da €300 milioni riservati alle imprese colpite dall’alluvione in Emilia-Romagna. La nuova misura, destinata a indennizzare le perdite di reddito per sospensione dell’attività per un importo massimo concedibile di 5 milioni di euro, è rivolta a tutte le tipologie di impresa con un fatturato estero minimo pari al 3%.



Avete chiuso l’azienda a causa del Coronavirus da pochi giorni. Con quale spirito?

L’altra sera ho voluto riunire tutti i nostri dipendenti, una cinquantina, con le debite distanze, per dare un senso di fiducia, ma anche per raccontare le difficoltà che andremo a vivere. Dopodiché ci siamo alzati tutti insieme a cantare l’inno d’Italia – gli si incrina un attimo la voce, ndr – Aurora è nata subito dopo la prima guerra mondiale, il nome era proprio quello beneaugurante di una rinascita; siamo sopravvissuti alla seconda guerra mondiale, e questo è forse il terzo momento più difficile della storia aziendale, perché è una difficoltà inaspettata, incontrollata e incontrollabile dal punto di vista delle leve di chi porta avanti l’azienda. Ma abbiamo voluto rassicurare i nostri clienti, i nostri collaboratori, i nostri fornitori con i quali abbiamo lavorato per tanto tempo: torneremo e ricominceremo con loro, perché li abbiamo sempre vissuti come partner di un progetto. Mi sono sentito di parlare anche alle banche, che saranno nei prossimi mesi il punto nodale sul quale ragionare e provare a immaginare come uscirne, perché è evidente che ci sarà una crisi di liquidità molto forte.

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Aurora arriva da anni di profondo rinnovamento: questo aiuta?

Quando ho preso in mano l’azienda sette anni fa, anche se sono entrato molto prima, da quasi 20 anni, è stato nel momento forse più difficile dell’economia mondiale, dopo il crac di Lehman Brothers. Cambiamenti epocali che visti con l’occhio di oggi sembrano acqua fresca, ma era comunque una fase complicata. Eppure abbiamo cambiato l’azienda, rivedendo la catena del valore e quella produttiva, facendo investimenti importanti, digitalizzando. Per assurdo che possa sembrare facciamo penne stilografiche, un oggetto antico per certi versi, utilizzando la tecnologia. Avendo deciso di mantenere tutta la catena del valore in Italia, non abbiamo mai delocalizzato, anche quando altri imprenditori andavano in paesi lontani e mi prendevano in giro, mi dicevano che ero pazzo a tenere con i costi italiani. Ma ho sempre sostenuto che la guerra nel nostro settore si fa sul concetto di valore, bellezza, su bello e ben fatto e non sul costo del prodotto, quindi abbiamo investito sull’attrattività del prodotto.

Fate proprio tutto in casa?

Abbiamo mantenuto tutta la filiera produttiva, un microcosmo che parte dallo stampaggio ma lavora anche i metalli preziosi, oro e argento, fino al montaggio e al pennino – siamo l’unica azienda italiana che fa pennini e tra le pochissime al mondo, è come se facessimo il motore a 12 cilindri di un’auto, per capirci – e ancora la parte di logistica e il servizio post vendita. Siamo una piccola azienda complessa, il mercato più simile al nostro è quello degli orologi. Aver tenuto tutto questo all’interno dell’azienda nel momento in cui siamo partiti è stato un sacrificio, ma ero convinto che ne avremmo beneficiato, e l’intuizione si è rivelata giusta.

È possibile sposare la tecnologia con la dimensione artigiana propria della penna stilografica?

Siamo stati tra i primi a introdurre un robot, ma allo stesso tempo abbiamo artigiani e artigiane che lavorano ai banchi. Ci facciamo aiutare dalla tecnologia dove è possibile, ma manteniamo la capacità del saper fare, dell’esperienza artigiana che viene dal nostro Rinascimento, per far diventare la nostra penna un oggetto unico. Questo equilibrio è da preservare, è il bello dell’Italia, quello che gli italiani sono sempre stati capaci di fare. Abbiamo più di 4 milioni di pezzi che girano in azienda, una penna è fatta da tanti pezzettini complicati. E abbiamo introdotto la filosofia lean: avevamo 13mila penne a magazzino, oggi meno di 200, ma continuiamo a soddisfare le esigenze del mercato. Eravamo un’azienda che parlava piemontese, con un’età media di 50 anni e mio padre che oltre a me era l’unico laureato, oggi l’età media è di 31 anni, siamo quasi tutti laureati o diplomati e facciamo viaggiare i nostri oggetti in giro per il mondo.

L’altra rivoluzione da lei introdotta è quella dell’internazionalizzazione.

Quando sono entrato in Aurora facevamo il 97% della nostra attività in Italia, oggi il 70% è all’estero. Un cambiamento culturale e di prospettiva realizzato da quando ho preso le redini dell’azienda sette anni fa. Il 25% delle nostre esportazioni va in Europa, una quota molto più bassa della media delle aziende italiane che si attesta attorno al 60-65%; il 50% tra Medio oriente e Far east, il 30% nelle Americhe. Siamo una mini-multinazionale tascabile, con un rischio ben distribuito. Da quando ho preso in mano l’azienda, con la dottoressa Edolinda Di Fonzo che segue l’export, abbiamo avuto per cinque anni una crescita a doppia cifra.

Fate anche altri tipi di penne oltre alle stilografiche che vi contraddistinguono?

Fino a qualche anno fa in azienda esisteva una proporzione più o meno stabile nel tempo: circa il 40% di stilografiche, il 30% di penne a sfera e il 30% di roller. Negli ultimi 4-5 anni è cresciuta a dismisura la quota delle stilografiche. In un mondo iper tecnologico che appiattisce il messaggio, lo rende omogeneo e impersonale, chi vuole distinguere se stesso viene indirizzato in modo importante verso la penna stilografica. Abbiamo artigiani che sono in grado di personalizzare il pennino sulla mano dell’utilizzatore: offriamo più di 27 tipologie di pennini, per chi scrive in cinese, arabo e così via, come un abito su misura. Facciamo corsi di scrittura e calligrafia, c’è un interesse veramente molto grande, tantissimi appassionati. Non sono vecchi nostalgici, bensì millennials che fanno convivere l’I-pad con una bella stilografica; un driver che ci lascia ben sperare per futuro. Scrivere a mano, e in particolare con la penna stilografica, accende zone neuronali molto più ampie che non battere la tastiera del computer.

Su quale fascia di prodotti state puntando maggiormente?

Oggi ci siamo riposizionati più sull’alto di gamma. Negli anni ’50, ‘60 e ‘70 la fascia media era la più importante, ma oggi la fascia alta è quella che ci dà più soddisfazioni. Noi identifichiamo la fascia bassa sotto i 100 euro, la media da 100 a 300-400 euro, quella alta da 400-500 a infinito. Quella che va dai 500 ai 1500 è la fascia che in questo momento ci sta dando maggior soddisfazione. Non facciamo in tempo a presentare al mercato le nostre edizioni limitate che la richiesta è già superiore all’offerta. Il Medio Oriente è un mercato importante per certi prodotti iper personalizzati, anche con pietre preziose: i prezzi sono completamente diversi, si parla di gioielli, è un’altra arena competitiva.

Cosa raccontano le vostre pubblicità storiche?

Un po’ come la Vespa, la Ferrari, la Nutella e altre icone, rappresentiamo un pezzo di storia d’Italia, siamo stati e siamo nel cuore e nelle mani degli italiani. Lo dimostra proprio la storia delle nostre pubblicità, abbiamo lavorato con i grandi designer, da Marcello Nizzoli ad Albe Steiner, da Marco Zanuso a Giorgetto Giugiaro a Giampiero Bodino, nel dna dell’azienda c’è sempre stato questo fil rouge con il design. Queste immagini che sono disegnate o litografate, hanno un’eleganza e una bellezza senza tempo. È possibile ammirarle nell’Officina della scrittura presso la nostra manifattura.

Di che cosa si tratta?

Non è un museo aziendale, con grande sorpresa di chi la visita sono presenti anche i concorrenti: 13 regine, i 13 pezzi che hanno segnato la storia della scrittura, un po’ come fossero le 13 auto più belle. C’è una galleria di arte contemporanea, un auditorium, una zona dei mestieri d’arte cui tengo particolarmente, perché secondo me il nostro paese deve ripartire dalla capacità del saper fare bene, del bello e ben fatto. A questo si aggiunge la genialità italiana nel creare idee: credo che l’Italia potrà ripartire da questo.