Altro che 5G e satelliti: Internet viaggia sott’acqua. Più o meno il 97% del traffico globale (e transazioni per circa 10 trilioni di dollari al giorno) passa attraverso i cavi sottomarini. E non solo sotto gli oceani (dove comunque sono posati 426 cavi sottomarini per un totale di 1,2 milioni di km, circa tre volte la distanza tra Terra e Luna), ma anche a casa nostra, nel Mediterraneo. «Attualmente Marsiglia è la più importante porta telematica del traffico tra Asia, Africa, Europa e Stati Uniti. Ma non è detta l’ultima parola. Anzi», esordisce Valeria Rossi, presidente di Open Hub Med, la società consortile che offre servizi di co-location e di interconnessione delle reti di operatori nazionali ed internazionali all’interno del suo data center, il più grande nel suo genere nel Sud Italia. «Guardi la mappa, guardi dove passano, i cavi, prima di approdare a Marsiglia», dice, indicando la Sicilia.
Ecco perché Carini, a 26 chilometri da Palermo. Rossi, si rende conto che lei sfata in un colpo solo ben due luoghi comuni, ovvero scarsa competenza Stem femminile e arretratezza del Sud?
Intanto ho una formazione tecnica: sono laureata in Scienze dell’informazione e mi sono occupata della rete accademica italiana. E poi sono entrata nel Mix – il Milan Internet Exchange, il principale internet exchange point pubblico italiano nel quale avviene l’interconnessione tra reti, ndr – al momento della fondazione, nel 2000.
Questa però è solo mezza risposta.
È vero. Durante il periodo in Mix una cosa balzava occhio e mi tormentava: il fatto che a livello europeo esiste uno dei più grandi centri di aggregazione del traffico di cavi sottomarini a Marsiglia. Eppure tutti questi cavi passano prima in Sicilia e vengono poi rilanciati verso la Francia.
È vero, pare un controsenso. Come è successo?
È dovuto al fatto che storicamente, dall’inizio della strutturazione delle grandi dorsali sottomarine, i cavi appartengono e vengono gestiti da consorzi, piccole oligarchie di grandi operatori o incumbent – gli ex monopolisti, ndr -. In Italia tipicamente si tratta di Telecom Italia Sparkle, il cui interesse all’inizio non era non tanto alimentare il traffico italiano, quanto portarlo all’estero. Ecco perché il prolungamento verso Marsiglia.
Perché la tormentava questa deviazione?
Perché dove c’è aumento di traffico c’è aumento di Pil e quindi sviluppo. L’Italia è così vicina ai Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente: perché far percorrere a un cavo altri 1300 km? È un valore che in Italia si perde. Così ho cominciato a muovermi verso la Sicilia e con Joy Marino – presidente del Mix dalla fondazione fino allo scorso anno, ndr – ho sviluppato l’idea di ricreare in Sicilia un modello analogo al Mix, con quel valore aggiunto che avremmo ottenuto creando un contraltare all’hub di Marsiglia.
Nonostante la cronica sindrome Nimby italica?
Ma sa che invece a volte in spiaggia posiamo la salvietta proprio dove arriva un cavo? A volte c’è una bandierina che segnala un pozzetto, ma è una situazione folle: si tratta di un ambito molto delicato sotto il profilo della sicurezza eppure poco monitorato.
Operativamente, Ohm come nasce?
Ho trovato un buon canale, tramite i miei contatti nelle università, in Italtel, nel campus tecnologico di Carini intitolato a Marisa Belisario, perfetto per la creazione di data center, che offriva anche il vantaggio di essere vicinissimo alla costa: più vicino si scambia il traffico, tanto meno costa per gli operatori e quindi anche per l’utenza.
Ma non basta un data center.
Restavano da trovare soci che credessero nell’iniziativa e mettessero fondi. Li ho trovati nel 2016: Eolo, Equinix Italia, Fastweb, Interoute (ora Exa Infra), Italtel, Supernap Italia, VueTel Italia (ora Vu-Chain), Xmed, rete di imprese costituita da operatori del territorio siciliano, e chiaramente il Mix (Milan Internet Exchange). Poi, negli anni, si sono aggiunti Retelit, In-Site e Atomo Networks.
Insomma, gli ingredienti c’erano tutti: la location, il data center e i partner. Ora però ce lo può spiegare: cos’è esattamente un internet exchange?
È un nodo internet dove le reti dei diversi operatori si collegano fisicamente, dove il traffico che proviene dall’utente di un operatore, destinato all’utente di un altro operatore, viene scambiato velocemente. Sono apparati piuttosto semplici che si chiamano switch, in grado di prendere un pacchetto dati che proviene dalla rete di un operatore e indirizzarlo su un’altra porta a cui è collegata un’altra rete. Il nostro data center, con i suoi 1000 metri quadrati, grazie alla modularità dei sistemi di precablaggi in fibra ed elettrici, si caratterizza per la facilità con cui i clienti possono installare i propri apparati in rack o usufruire di quelli messi a disposizione da Ohm in tempi estremamente contenuti ed a costi competitivi. È stato progettato da In-Site nel 2016 con i più avanzati sistemi tecnologici che ne garantiscono la continuità di servizio e la scalabilità delle infrastrutture interne e della potenza elettrica nel tempo. Sono attivi inoltre tre backhauling, le “autostrade digitali” terrestri di altrettanti cavi sottomarini, ciascuno remotizzabile mediante infrastrutture in fibra.
È stato un investimento impegnativo?
È costato solo un paio di milioni di euro. Siamo stati bravissimi. Anche perché siamo riusciti a creare massa critica a livello locale: abbiamo aperto nel “deserto dei tartari”, in Sicilia, dove non c’era niente. Pur essendoci operatori, generalmente piccoli, mancava quasi completamente l’infrastruttura e quindi i prezzi del trasporto dei dati verso Milano erano proibitivi. Ovviamente di internazionale non se ne parlava, tenendo conto che il mega competiror Telecom Italia Sparkle continuava a portare i dati a Marsiglia. Ma il nostro scopo è mantenere l’aggregazione al Sud e sviluppare un primo indotto: nell’arco di tre anni e mezzo di operatività i costi di trasporto dati da Palermo a Milano si sono abbassati di oltre il 40% grazie a noi. Il nostro è un modello multivendor, ovvero competitività diretta che poi è competitività dei costi.
I vostri da un lato sono soci e dall’altro competitor.
Credo che in Italia un modello del genere esista solo in due posti: al Mix e in Open Hub Med. Abbiamo scelto il modello consortile scelto per due motivi. Uno pragmatico: nessuno avrebbe mai investito in Sicilia autonomamente. L’altro strategico: riuscire a mantenere un approccio aperto pur lavorando tra competitor. Il concetto di apertura è fondamentale per crescere. Marsiglia, Londra, Milano, Amsterdam lo insegnano: sono tutti modelli così. È fondamentale che il possessore del centro di aggregazione – che poi è il data center – sia un soggetto che non fa l’operatore. La parolina chiave è “carrier independent”. Cosa che Telecom Italia Sparkle, col suo punto di aggregazione a Palermo, non è.
Ma è nato vent’anni prima.
Però, casualmente, giusto due o tre mesi prima dell’annuncio della costituzione di Ohm ha annunciato per la prima volta l’apertura anche ad altri operatori…
Manca ancora un passaggio fondamentale.
La parte più difficile: far arrivare al nostro hub cavi sottomarini che costano un patrimonio, tra i 30 e i 45 mila euro al chilometro, dall’Asia e dal Nord Africa. Sta riprendendo la posa di cavi nel Mediterraneo, al ritmo di due o tre l’anno con progetti con una durata media di tre anni. È un lavoro impegnativo che stiamo portando avanti con operatori d’oltremare, tra noi direttamente e tramite i nostri soci: Retelit, per esempio, che già possiede un cavo sottomarino che atterra a Bari ed è prolungato via terra in Ohm. Il nostro polo rappresenta oggi la prima sede tecnologica neutrale e carrier-independent nel Sud Mediterraneo per l’alloggiamento di apparati tecnologici di operatori, Ott, imprese e pubblica amministrazione.