Parola d’ordine: ottimismo. L’Italia e l’Europa tutta si sono svegliate dal letargo pandemico improvvisamente positive. L’industria che ritorna ai livelli pre-covid, l’Istat che registra incrementi in tutti i settori, l’austera Lagarde che esprime fiducia (“la ripresa sarà vigorosa”), le previsioni sul PIL che profumano di boom, la crescita degli investimenti: tutto fa credere che la ripresa sia alle porte. Se si tratterà di rimbalzo, magari a seguito di una valvola compressa e improvvisamente esplosa, destinato a lasciare il passo al trend di lungo periodo che riporterà l’Italia ai suoi indici di crescita debole, o se si potrà parlare davvero di nuovo corso, dipenderà sicuramente da una miscela di variabili, tra le quali spicca il grado di innovazione che sapremo mettere in campo.
La sensazione, infatti, è che la crisi si possa superare, che il boom possa realizzarsi, ma che, per trasformare un exploit in performance tendenziale, sia necessario che tessuto economico e attori istituzionali cooperino, ciascuno per la propria parte, per la costruzione di una nuova cultura che metta al centro semplificazione e digitalizzazione.
Visti da fuori, i gap da colmare sono piuttosto appariscenti: il Super Index Aibe (associazione banche estere), ci piazza esattamente alla metà della classifica tra le maggiori 18 economie mondiali per attrattività. Pesano a nostro svantaggio il trattamento fiscale (è percepito “difficile” pagare le tasse) e la demografia (intesa come quota di popolazione lavorativa); ma anche un indicatore apparentemente più efficiente in termini assoluti, viene ponderato alla sua importanza e “bocciato” dal rapporto. Dice l’Aibe: “sul piano della digitalizzazione, l’esito del confronto specifico appare, sì, in linea con il rank conclusivo del Super Indice ma, data l’importanza che i processi di innovazione basati sul digitale stanno assumendo in questi anni, è legittimo individuare in questo ambito uno degli elementi più critici su cui misurare le prospettive di crescita e di attrattività”.
Il nodo dei consumi
Tra il proliferare di dati e previsioni, se possiamo crogiolarci al sole di un PIL dato fortemente in crescita (secondo l’Istat +4,7% nel 2021 e +4,4% nel 2022) e della ripresa degli investimenti (+48,6%, ad esempio, nei settori dei macchinari utensili e della robotica, ma nessuno è escluso), a stonare è quel comportamento a cui ogni industria guarda con apprensione: i consumi sono al palo e le famiglie continuano a spendere mediamente 250 euro al mese, riservando al risparmio buona parte delle entrate. Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, sostiene però che la ripresa ci sarà anche qui, basterà aspettare la normalizzazione della situazione sanitaria e la conseguente fuoriuscita dal clima di incertezza. Tuttavia, sempre lo stesso Visco avverte: “Occorrerà rafforzare la formazione interna alle aziende ed elevare conoscenze e competenze, anche nell’uso delle nuove tecnologie, ancora largamente inadeguate”.
Tendenze da corrispondere
Per farsi un’idea di quanto sia cruciale il segmento dell’innovazione (tecnologica e digitale) per riuscire a cavalcare la ripresa, e non solo stare a guardare l’effetto che fa, bastano le osservazione dell’osservatorio eCommerce B2c Netcomm – School of Management del Politecnico di Milano: la crescita dell’eCommerce di prodotto, eredità della pandemia che ha cambiato (definitivamente?) le abitudini di acquisto dei consumatori, continuerà anche nel 2021. Secondo le stime quest’anno sara’ registrato un incremento del +18%, che porterà i prodotti a raggiungere i 30,6 miliardi di euro in transazioni. Il Food&Grocery rimarrà il settore trainante (+38%), seguito dall’Abbigliamento e Accessori (+26%) e dal Beauty (+20%). Ma l’aumento della domanda non innesca l’automatismo della crescita del fatturato, almeno non per tutti. In mezzo, infatti, passa la capacità delle imprese di muoversi sul mercato online con una strategia digitale e attivando investimenti capaci di potenziare i canali di vendita e l’interazione dei consumatori. “Le indicazioni del mercato sono chiarissime – ha spiegato Claudio Calveri, digital strategist di DeRev, società di strategia, comunicazione e marketing digitale -, sarebbe poco avveduto da parte delle Pmi non recepirle. Siamo di fronte ad una cittadinanza digitale sempre più votata ad esperienze d’acquisto online, ora anche direttamente attraverso i social. Investire nello studio e nell’affinamento del proprio posizionamento, utilizzando tutte le leve della comunicazione e del marketing per la costruzione della brand reputation e dei flussi che portano al contatto o al carrello, è un anello fondamentale: se viene saldato a dovere, significherà crescita; se sarà debole o inesistente lascerà orfana di futuro una delle migliori previsioni di ripartenza degli ultimi 20 anni”.
È probabilmente per questo che il 2020 ha visto ristrutturato il mercato del lavoro: le imprese hanno, infatti, richiesto competenze digital in sei posizioni aperte su dieci, con un’impennata dei recruitment di esperti in digital marketing. E chi non ha la forza di dotarsi internamente di figure dedicate, o necessita di team strutturati capaci di affrontare il digitale con professionalità a 360°, si rivolge sempre di più ad agenzie e partner per affrontare la sfida. Segno che l’antifona si è capita, ma solo chi saprà interpretarla meglio raccoglierà frutti sicuri.
Si fa presto a dire online
Non basta aprire un e-commerce per vendere online, non basta avere un profilo social per comunicare e non basta attivare un contratto con un influencer per ottimizzare la brand reputation. Se la presenza online è un tassello fondamentale del fare impresa del nuovo secolo, la vera partita si gioca in termini di strategia digitale: un concetto che può fare la differenza tra la riuscita di un’impresa e la sua rovina. “Veniamo contattati sempre più spesso da aziende, Pubbliche Amministrazioni e professionisti che ci chiedono supporto per costruire il proprio posizionamento online e riuscire a raggiungere il proprio target – spiega Roberto Esposito, CEO di DeRev, società di strategia, comunicazione e marketing digitale -. Stiamo parlando di vere strategie di sviluppo che mettono insieme il servizio o prodotto, il brand con la sua storia e i suoi valori, il business, le tecnologie a disposizione e tanto ascolto del cliente che si vuole ingaggiare”. Se, dunque, per digital strategy si intende un composito ventaglio di strumenti finalizzato all’ottenimento di obiettivi anche molto importanti, “fare da soli o con risorse limitate può essere controproducente. Ci sono molte variabili in gioco e altrettanti rischi che possono essere difficili da prevedere e gestire. Se pensiamo che in ballo c’è la reputazione di un’azienda o di una Pubblica Amministrazione, capiamo bene che non c’è margine per essere superficiali – prosegue Esposito -. Ci capita spesso di vedere dirigenti andare a dormire sereni e svegliarsi con i social infuocati. Sono i casi di crisis in cui veniamo chiamati urgentemente per un management che contenga la situazione. Ma sono delle punte di iceberg: ci sono danni che sono sibillini e silenziosi. Derivano da errori e fragilità comunicative di lungo corso come piani di comunicazione senza coerenza, campagne di advertising sbagliate, che provocano sprechi di risorse anche imponenti, o incapacità dio trovare un tono di voce e uno stile adatti a dialogare e coinvolgere i clienti. Tanto per risalire la china, quanto per partire con la marcia giusta, è fondamentale rivolgersi a chi sa cosa fare e come farlo”.