La politica, diceva Paolo VI, è la più alta forma di carità. Pia illusione, vien da dire osservando il panorama lunare della politica occidentale – quella di Russia e Cina non è politica: si chiama dittatura – nell’era della Rete. Le ridicolaggini del teatrino italiano sono al surreale. Tra grillini allo stremo, armati solo di una supponenza impotente e della miracolosa personale credibilità di un premier come Giuseppe Conte – da essi designato ma del tutto autonomo – e un Pd sbandato nella nebbia della confusione dei programmi e delle frizioni interne e con i compagni di strada renziani, la maggioranza ha la strada forse ancora lunga, ma sostanzialmente cieca come il più breve dei vicoli.
L’opposizione continua a interrogarsi da ormai dieci anni sull’eredità impossibile di Berlusconi e sulla vocazione ultima dell’attor giovane, Salvini, tra segnali di moderazione e persistenti derive oltranziste.
In mezzo, un mare di chiacchiere e di promesse vane, infattibili, in mancanza di soldi veri e di burocrazia efficiente. L’elenco sarebbe sterminato: infrastrutture millantate e inattuate, investimenti a parole, commissariamenti infiniti, impasse economiche gravissime, una totale incapacità gestionale.
Non che nel resto del mondo le cose vadano assai meglio, però: tra le inedite fibrillazioni politiche dei tedeschi, infuriati a dispetto del benessere, le gaffe seriali di Macron, in una tensione sociale senza precedenti da decenni in Francia, e infine la corsa alle presidenziali americane, dove tra i democratici svettano solo ultrasettantenni di dubbio curriculum e confusa vocazione, mentre il becerissimo Trump sembra lanciato alla riconferma.
Ma l’Italia cresce meno di tutti gli altri. Quindi soffre di più. Se questa è la politica dei tweet e del populismo – sia quello incolto che quello chic – il peso reale dello sviluppo economico e dei suoi problemi grava più direttamente sulle spalle delle imprese. Senza mediazioni e sostegni.
La corsa alla presidenza di Confindustria, dopo l’ottimo quadriennio di Vincenzo Boccia, è dunque assolutamente cruciale. è come se la categoria fosse chiamata a un ruolo politico più diretto: non perché gli imprenditori debbano scendere in politica – c’è chi ci ha provato e non è stato il massimo – ma perché dalla proposta è forse ora di passare a proteste e pressioni più severe e incisive, nel solco peraltro già aperto da Boccia. Quello del presidente di Confindustria è dunque ormai un lavoro a tempo pieno. Come ha saputo svolgerlo Carlo Bonomi in Assolombarda, da sempre il cuore e la mente dell’imprenditoria nazionale. Ma anche Licia Mattioli, che a Roma ha ben promosso le attività confindustriali per l’internazionalizzazione.
È un lavoro che richiede “soft skill”, idee chiare, leadership e capacità negoziali spiccate. Richiede la capacità di non essere divisivi. Richiede la sensibilità di “leggere” le esigenze dell’impresa e della società a tutto tondo, non soltanto nella logica della grande industria ma anche delle imprese medio piccole e dei servizi. Richiede la determinazione a tenere coesi i territori, valorizzando al massimo anche il Sud, ma anche perseguendo quella meritocrazia tra persone e comunità che non è mai stata abbastanza valorizzata in Italia.
L’obiettivo è ottenere regole semplici, meno vincoli, un fisco equo, più investimenti infrastrutturali. Tutto quanto può creare le condizioni per la crescita. Una giustizia giusta, tra l’altro e prima di molto altro, e non interminabile come vorrebbero i fautori del “fine prescrizione: mai”.
E più spazio al ruolo dei corpi intermedi, delle categorie professionali con le loro competenze, dei manager, della famosa società civile che da troppi anni viene presa per il naso. Poi che la politica trovi la sua quadra resta comunque una priorità. Ma è ancor più cruciale che nel frattempo l’impresa non rimanga ferma per colpa del Palazzo.