di Mario Abis
Quello che 20, 30 anni fa Ulrich Beck vedeva come il nuovo possibile perimetro sociale, quello del rischio, è diventato oggi l’attualità del nostro vivere e convivere.
Dall’ambiente, che mette in discussione la sopravvivenza stessa del pianeta, alla sicurezza che tocca fra criminalità e guerre la dimensione individuale e collettiva, dall’ambiguità delle tecnologie che sviluppandosi creano incertezze nelle identità personali, fra espansione e alienazione delle libertà individuali, al sistema economico-finanziario che si sviluppa in sistemi poco lineari e prevedibili, tutte le dimensioni che creano e regolano la struttura sociale, sono, come prevedeva Beck, a rischio.
Tutto può autodistruggersi e tutto può contenere futuri positivi e futuri negativi: in ogni caso tutto diventa incerto e poco definibile. Qualcosa di più della società delle incertezze di cui spesso si parla: il rischio genera la paura, la paura il senso del pericolo. Questa struttura sociale si “forma” nel sentimento del rischio ed è comunque difficile pensare, indipendentemente dal pericolo generato dal rischio dal fatto che questo pericolo si manifesti o meno, che questa società possa essere “felice”.
E già questo è un effetto civile e politico: il diritto alla felicità sancito dal primo articolo della costituzione americana è difficilmente perseguibile.
Il rischio che crea infelicità genera effetti a catena, che vanno dalla struttura sociale fino alla dimensione strettamente individuale, e formano quel malessere diffuso che diviene la vera questione legata ai bisogni sociali cui le varie agenzie pubbliche e collettive non danno risposta.
Questo riguarda innanzitutto la politica che mai come in questo momento storico ha espresso una totale incapacità a capire prima ancora che a fare.
La politica non sembra in grado di aiutare la società del rischio, guarda solo se stessa ed è in un altrove pericoloso che lascia spazio ai corti circuiti delle vie brevi: il totalitarismo e la cosiddetta nuova autocrazia altro non sono che la risposta ad un mondo lontano e incomprensibile.
Sul versante spirituale la Chiesa, per esempio, sembra capire di più ma denuncia le proprie debolezze strutturali a cominciare dalle forme rappresentative. Qualcuno pensa che con il rischio e il pericolo si diventa più reattivi e si citano gli anni ’70: buio del terrorismo, inflazione a doppia cifra, città vuote di notte, paura, ma invenzioni e creatività a mille.
Beh, questo è un momento simile: l’infelicità della società del rischio può essere aiutata da una nuova creatività: quelle delle nuove strutture “politiche “ e comunitarie che interpretino bisogni e paure. È quella che si chiama: una alleanza sociale .
Se pensiamo a due strutture di rischio con cui conviviamo, il Covid e la guerra attuale e futura possibile con la Russia e la Cina, la prima che riguarda la salute, la seconda l’equilibrio geopolitico portato all’estremo, percepiamo che il rischio è appunto, non un pericolo, un evento… ma la forma stessa della nostra sopravvivenza. E gli stessi effetti indiretti e personali – a cominciare dall’indebolimento dei rapporti interpersonali, dalle solitudini, dallo smarrimento e dall’incertezza di molti “pezzi” di società a cominciare dai giovani – sono effetto della struttura di “rischio” della società.
Quando si dice alleanza ci si deve riferire a entità orizzontali, che si muovono dal basso. Le tante firme di potere autorganizzato nei territori sociali: dai sindacati (quelli moderni e non quelli vecchi e burocratici) alle strutture di sostegno sociale, dai circuiti di ricerca operativa delle università alle istituzioni di rappresentanza cultuale e professionali, dai mondi della cultura e dello sport alle strutture di progettazione dei territori, insomma i tanti mondi che nella complessità non si dividono ma trovano intenti comuni e un potere nuovo di sostegno e rappresentanza sociale.