Autonomia, ascolto, confronto. È quel che i lavoratori italiani chiedono ai loro capi per poterli raccomandare a colleghi e amici. Ma i capi non rispondono alle aspettative, visto che ben l’80% degli intervistati non li consiglierebbe: è quanto emerge dalla ricerca “Good Boss vs Bad boss”, frutto di un’indagine realizzata dalla LIUC Business School, con la collaborazione di IESEG – School of Management, CFMT – Centro di Formazione del Management del Terziario e AIADS – Associazione Italiana di Analisi Dinamica dei Sistemi. «La nostra ricerca ha messo in evidenza l’importanza dell’ascolto» spiega Vittorio D’Amato, Direttore del Centro sul Cambiamento, la Leadership e il People Management della LIUC Business School, «non solamente quello di tipo tecnico, con il capo e il collaboratore che si confrontano sugli obiettivi, ma anche quello dei bisogni degli stessi collaboratori, un ascolto più personale, più umano. Molte ricerche internazionali hanno concluso che si tratta di un elemento capace di fare la differenza». L’obiettivo principale della ricerca è misurare il Net Management Promoter Score (basato su studi dell’Università di Harvard, poi elaborati da Julian Birkinshaw della London Business School) dei capi italiani e identificare quali comportamenti dei capi permettono ai collaboratori di lavorare al meglio. «Emerge un trend che è tipico dei cosiddetti millennials, più orientati rispetto alle generazioni precedenti a una gestione autonoma del lavoro, in cui a contare sono i risultati e non le modalità operative. La loro richiesta è chiara: capo, una volta che ci siamo capiti lasciami fare il mio mestiere». Un’esigenza legata a nuove modalità lavorative come smartworking, alla flessibilità nei tempi e nei luoghi di lavoro, conciliazione tra vita privata e professione: «Senza perdere in produttività, ma al contrario agevolando il raggiungimento di nuovi successi, anche grazie all’aiuto della tecnologia» aggiunge D’Amato. Le esigenze nei confronti dei capi, però, sembrano essere molto poco soddisfatte, non solo in Italia, ma a livello globale: secondo una ricerca Gallup, nel 2017 l’87% dei collaboratori si dichiarava disengaged. «Un livello altissimo, confermato anche da altri studi» sottolinea D’Amato, «che dimostra come siamo nell’era in cui vanno reinventati il management e la leadership. Su questo c’è una sintonia completa, si stanno muovendo in questa direzione London Business School, Insead, Ieseg».
Cosa dovrà fare dunque il nuovo capo? «Mettersi al servizio del collaboratore» risponde il professore della LIUC Business School, «facilitargli il lavoro organizzando il contesto, ma anche aiutarlo a chiarirsi le idee, a capire dove andrà in futuro. Ci vuole una trasformazione del capo da controllore, com’era e come forse è ancora adesso, a mentor, a coach, a ispiratore, a persona che aiuti il collaboratore a capire dove sarà in futuro». È un cambio di paradigma, che si riassume in un motto che si afferma a livello internazionale: da “customer first” a “employer first”. «Se non tratto bene il collaboratore non sarà engaged, e il cliente non avrà buoni servizi» rimarca D’Amato, «quindi quel che faccio con il cliente dovrei farlo con il collaboratore, che è anche la miglior voce per consigliare l’azienda come un luogo dove si lavora bene. Se al cliente voglio fare vivere un’esperienza unica, dovrei fare lo stesso con il collaboratore: ma sappiamo che non è sempre così… È un cambiamento epocale, che impegnerà le imprese nei prossimi 15-20 anni».